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FIABE


Una principessa in fuga
Stella

«Stramaledetti genitori!», strepitai. «Che gli è saltato in mente?», dissi mentre dalla cabina armadio prendevo un grosso borsone.
Solo poche ore prima mi avevano comunicato che il mio futuro sposo il principe “ma chi vuole ricordarsi come si chiama”; “ ma chi vuole sapere da che regno arriva”; sarebbe arrivato il giorno seguente per chiedere la mia mano e secondo gli accordi presi tra i nostri genitori mi sarebbe stato impossibile rifiutare senza causare una frattura negli accordi di pace.
«Non l’ho nemmeno mai incontrato!», strillai. C’era una sola soluzione possibile. La fuga.
Passai velocemente al vaglio il mio guardaroba e il nécessaire, per scegliere l’essenziale che avrei assolutamente dovuto portare con me e iniziai a riversarlo sopra il letto. Trentadue abiti per diverse occasioni; cinque tipi di spazzole per capelli; venticinque fermagli; quarantacinque paia di scarpe; undici borsette; dodici lozioni differenti per il corpo; cosmetici vari, impossibile contarli e un libro, piccolo: per i momenti di noia.
Guardai la massa informe sul letto. Guardai il borsone. Riguardai la massa informe sul letto. Riguardai il borsone. No, decisamente non ci sarebbe mai entrato tutto. Mi sarebbe toccato un ridimensionamento delle mie esigenze, un drastico ridimensionamento. Alla fine per la rabbia e l’indecisione presi con me solo lo spazzolino da denti.
Aprii la portafinestra della mia camera che dava su una grande terrazza di marmo bianco. Fortunatamente la mia stanza si trovava sul retro del castello, e si affacciava direttamente sul giardino, dal quale avevo buone possibilità di riuscire a fuggire senza essere vista; ma sfortunatamente mi trovavo allo stramaledetto primo piano!
Come avrei fatto ad arrivare al piano terra senza sfracellarmi? Ahimè, tanti buoni propositi di fuga che si infrangevano per una inezia. Ma perché gli esseri umani non hanno le ali quando servono?
«Meglio spappolata che sposata a uno sconosciuto!», mi dissi, sbattendo un piede a terra.
Mi sporsi dalla balaustra per vedere se riuscivo a individuare un qualsiasi appiglio che mi aiutasse a calarmi, e poco dopo trovai quello che faceva al caso mio. Se non potevo volare come un uccello, mi sarei calata come un geco lungo l’edera che saliva attaccata al muro dal terreno fino al mio piano. Con un ghigno e gli occhi che mi scintillavano di soddisfazione per la brillante idea, mi issai sul parapetto e con uno slancio mi aggrappai con entrambe le mani al rampicante. Non so bene cosa successe dopo. Credo che la pianta, molto semplicemente, non abbia retto il mio peso, perché mi sono ritrovata a terra tutta dolorante e ricoperta di edera. Mi misi a sedere un po’ intontita. Nei dintorni non si vedeva nessuno. Almeno non avevo fatto rumore attirando l’attenzione delle guardie. Mi issai in piedi e spolverai con le mani la gonna, poi ne sollevai due lembi e finalmente mi detti alla fuga.
Non ci misi molto a trovare la vecchia porticina d’emergenza nel muro di cinta sul lato est del giardino. Assolutamente impenetrabile dall’esterno, ma a quanto dicevano i miei, facilmente apribile dall’interno. I miei avi l’avevano fatta installare in caso si verificasse la necessità di una fuga repentina della famiglia reale, per un attacco a sorpresa da parte di un reame limitrofo; ma fortunatamente non era mai stata usata perché la pace prosperava da tempi immemori tra i regni confinanti. Fino ad ora. Adesso per colpa di una proposta di matrimonio poteva finire tutto gambe all’aria. Ma se io fuggivo, il “non ho intenzione di memorizzarne il nome” principe non mi poteva fare la proposta, quindi non avrei dovuto opporre il mio rifiuto, e dunque nessuno si sarebbe sentito offeso e tutto poteva continuare come sempre. Mi daranno per dispersa e lui stanco di aspettare andrà a fidanzarsi con qualche altra principessa, allora finalmente potrò tornare a casa.
Protesi la mano verso la maniglia della porta, pronta a spingere con tutte le mie forze pur di schiuderla. Ma appena l’ebbi toccata, i cardini arrugginiti si staccarono dal muro facendo crollare a terra l’uscio con un tonfo. Rimasi a guardarlo basita. Alla faccia dell’impenetrabilità dall’esterno; forse secoli orsono quando l’avevano installata, adesso era completamente marcia. Di sicuro su una cosa avevano ragione i miei, aprirla era facilissimo. Non mi fermai a rimuginarci ulteriormente, il rumore poteva essere stato avvertito dalle guardie. Passai sopra la porta e mi defilai nel buio di una viuzza. Nascosta dall’oscurità della sera, una ragazza tra tante. Invisibile.
O meglio, questo è quello che mi ero immaginata quando un’ora prima avevo concepito il mio piano di fuga. In verità tutti quelli che mi incrociavano mi guardavano con tanto d’occhi, spalancando la bocca. Iniziavo ad essere decisamente preoccupata, non stavo affatto passando inosservata come avrei voluto.
Perché tutti mi squadravano a quel modo? Fin da piccola i miei non mi avevano mai consentito di uscire dal palazzo, se non chiusa in una carrozza e con le tende tirate; per cui nessuno poteva conoscere il mio viso e sapere chi fossi realmente.
Per cercare di sfuggire a tutti quegli sguardi mi inoltrai in una stretta stradina, dove non sembrava esserci anima viva. Stavo cercando di riordinare le idee per decidere sul da farsi, quando un ostacolo che non avevo notato in mezzo alla strada mi fece finire carponi. Mi voltai scocciata per vedere cosa mi avesse fatta inciampare. Sulle prime non capii, perché mi trovai davanti due enormi scarponi; ma seguendone la linea verso l’alto mi trovai sormontata da un uomo grande come un armadio a tre ante.
«Oh, guarda che ricco uccellino ci è caduto dal cielo», disse una seconda figura, sbucata alle spalle del gigante. Un uomo tarchiato, con gli occhi freddi come il ghiaccio.
«Cosa possiamo farne di te uccellino?», disse, mentre la sua bocca si apriva in un ghigno feroce.
Iniziai a sudare freddo. Non ero mai uscita dal castello prima, ma non ero del tutto ignara dei pericoli del mondo esterno. Avrei voluto gridare per chiedere aiuto, ma per la paura non riuscivo ad emettere alcun suono. Avrei voluto alzarmi e scappare, ma le gambe non rispondevano ai miei comandi. Mi sentivo persa.
«Potremo rapinarla?», disse l’armadio a tre ante.
«O potremmo rapirla e chiedere un riscatto alla sua famiglia? Devono essere davvero ricchi per potersi permettere di vestirla in questo modo, scimunito!».
«Ah, non ci avevo pensato», rispose il compare.
«O forse dovreste smettere di spaventare la figlia della sarta di corte». Un giovane, comparso alle mie spalle, si avvicinò a noi con passo sicuro.
«La figlia della sarta?», ripeté l’uomo tarchiato, inarcando un sopracciglio e guardando con diffidenza il nuovo venuto.
«Certo!», dichiarò il ragazzo, allungandomi una mano per aiutarmi ad alzare. Poi rivolto a me disse: «Accidenti a te, hai sporcato l’abito per la duchessa, cosa ti è saltato in mente di indossarlo per andare a incontrare le tue amiche, tua madre ti farà una bella ramanzina quando tornerai a casa».
Per un attimo rimasi impalata a fissarlo senza sapere cosa dire, ma vista l’opportunità che mi si presentava riuscii a riscuotermi e a farfugliare: «Ah, si, è vero, non avrei dovuto prenderlo».
La mia interpretazione non fu delle migliori, ma i due sembrarono cascarci perché grugnendo qualcosa si voltarono e con passo ciondolante andarono verso la via principale e svoltando l’angolo sparirono alla nostra vista.
«E’ meglio che ce ne andiamo da qui prima che si rendano conto che siete una pessima attrice e tornino indietro», disse il giovane. Poi, mi afferrò una mano e tirandomi dietro di sé, mi condusse dalla parte opposta a quella presa dai due malviventi. Di norma mi sarei opposta a un contatto così intimo da parte di uno sconosciuto, ma la paura mi aveva resa remissiva. Volevo solo sentirmi al più presto di nuovo al sicuro.
Uscimmo in un grande cortile, circondato da graziose palazzine a due piani. Il giovane si avvicinò a uno stenditoio sul quale erano appesi alcuni abiti e delle lenzuola che svolazzavano sospinti dal vento. Afferrò un abito da donna e me lo porse dicendomi: «Indossate questo».
Aggrottai le sopracciglia «Questo è un furto».
«Uno scambio. Gli lascerete il vostro in cambio. Con quello addosso non passerete mai inosservata. Senza una spada potrei non essere in grado di difendervi in caso di bisogno. Sarebbe preferibile un abbigliamento che attiri meno l’attenzione».
Non replicai perché capii che aveva ragione. Presi il vestito e lui mi consigliò di cambiarmi tra due lenzuoli stesi, che avrebbero celato la mia figura a possibili occhi indiscreti. Non avevo mai indossato un abito prima senza l’aiuto delle mie damigelle. Ma la cosa non si rivelò complicata, perché il vestito era piuttosto semplice. Azzurro, di una stoffa grezza, ma leggera. Con una fascia in vita che si annodava sulla schiena scendendo poi in due lunghe code. Appesi il mio abito nel posto lasciato vuoto da quello che avevo indosso, poi mi fermai per fare il punto della situazione. Chi era quel giovane che mi stava aiutando? Aveva forse un secondo fine? Valutai l’opzione di eclissarmi mentre era distratto. Scostai un lembo del lenzuolo per poterlo scrutare. Stava di profilo, assorto, con lo sguardo perso in lontananza. Ora che lo potevo osservare bene, mi resi conto che era davvero bello. La luce della luna danzava sulla sua pelle rendendola luminosa come il cristallo e i suoi capelli parevano fili di seta imperlati di gemme lucenti. Aveva un portamento fiero e i suoi abiti erano raffinati, senza però essere appariscenti. Mentre me ne stavo lì quasi avvolta nel lenzuolo a guardarlo, si girò verso di me cogliendomi in flagrante. Incrociando il mio sguardo i tratti del suo viso si ammorbidirono e le sue belle labbra si inarcarono nel sorriso più delicato e più dolce che avessi mai visto. Perché questo estraneo mi guardava con così tanta tenerezza?
Ormai avevo perso la possibilità di fuggire da lui, ma non mi importava, i suoi occhi mi dicevano che potevo fidarmi. Per un momento più lungo del lecito restai ancora lì, a fissarlo imbambolata, finché il suo viso non assunse un’espressione interrogativa. Allora abbassai lo sguardo imbarazzata. Scostai il lenzuolo e mi avvicinai a lui.
«Vi ringrazio per avermi aiutata».
«Dovere», fece una pausa soppesando le parole, come se fosse combattuto su quello che voleva o doveva dire. Poi aggiunse: «Sarà meglio andare in un luogo dove potrete riposarvi e rifocillarvi, parete spossata».
Ora che me lo faceva notare mi sentivo stanchissima, l’adrenalina era scemata di colpo dal mio corpo lasciandomi sfiancata; e in quanto a fame, avrei divorato un bue intero.
Mi guidò in una piccola, ma graziosa trattoria. L’oste fu molto cordiale e ci fece accomodare a un tavolino sotto una veranda, che si apriva su di un giardino attraversato da un fiumiciattolo. Le poltrone su cui sedevamo avevano dei grossi cuscini di velluto rosso, morbidi e confortevoli e oltre al locale anche il perimetro del giardino era illuminato da centinaia di piccole candele, come se fosse abitato da tante piccole lucciole. La situazione di sicuro contravveniva alle regole di comportamento accettabili per una nobildonna. Ma gli altri ospiti del locale non sembravano prestarci molta attenzione, ne dedussi che ci considerassero una normale coppia di sposi. Meglio così, non avevo tempo per preoccuparmi delle norme sociali, stavo morendo di fame.
Lui quasi non toccò cibo, limitandosi ad osservarmi sorridendo; mentre io, sebbene non fosse molto raffinato e femminile, mi servii abbondantemente.
Una volta terminato il pasto il mio accompagnatore si allontanò per parlare con l’oste. Si scambiarono solo poche parole, ma l’uomo a un tratto sembrava molto agitato, si profuse in un paio di goffi inchini e fece ritorno in cucina in tutta fretta.
Il giovane ritornò verso di me e mi invitò a sedermi su una panchina che costeggiava il fiume. Mentre ci dirigevamo verso la panca ogni tanto ne sbirciavo il viso con la coda dell’occhio. Sentivo che stava arrivando il momento delle domande e ne ero intimorita. Non ne capivo il motivo, ma se avessi potuto avrei fermato il tempo, lì, ora, per sempre.
Ci accomodammo e lui si volto a guardarmi. I suoi occhi posati su di me, mi mandarono il cuore in tilt e mi sentii avvampare le guance. Poi lui disse: «Vi prego devo saperlo. Principessa perché siete fuggita dal castello?».
Mi colse completamente alla sprovvista. Avvertii immediatamente il sangue che mi defluiva dalle guance, facendomi sbiancare di colpo. Ero convinta mi credesse una nobile di corte che era scioccamente uscita dal castello senza un seguito a difenderla da possibili malintenzionati; e invece, come poteva sapere ch’io fossi? Ci misi un po’a ritrovare l’uso della parola. «Come…, come fate a sapere chi sono?».
Toccò a lui apparire sorpreso, ma ritrovò subito il controllo di sé e disse: «Ho avuto il piacere di vedervi in qualche occasione».
«Al castello?», chiesi.
«Si, è così», rispose.
Non ricordavo di averlo mai incontrato, ne dedussi che forse era il figlio di qualcuno della servitù. Decisi di non investigare oltre perché pareva a disagio e non volevo metterlo in imbarazzo evidenziando la nostra differenza di classe sociale. Per quanto mi riguardava ai miei occhi aveva il contegno di un re.
«Vi ho vista sola per le vie della città e vi ho seguita a distanza per assicurarmi che non vi capitasse niente di male».
Ero sbalordita e lusingata da tanta premura.
«Mi avete salvata», dissi.
Lui mi guardo, con una intensità e una profondità nello sguardo che non avevo mai visto prima in nessun’altra persona.
«Volete ora dirmi il perché di questa fuga?», chiese.
No che non volevo dirglielo. Non volevo dirgli che se fossi rimasta al palazzo, sarei stata costretta a sposare il “non voglio sapere il suo nome” principe. Con lui di questo proprio non volevo parlare.
«E’ per via della proposta di matrimonio?».
Lo guardai sgranando gli occhi. Ma chi era un indovino? O forse al palazzo la servitù spettegolava decisamente un po’ troppo.
Distolsi lo sguardo e arricciai le mani in grembo. «Si, è esatto», dissi, «non mi potrei rifiutare. Io non so nemmeno chi sia. Non l’ho mai visto».
Lui parve scioccato. Fece per aprire la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse. Per un momento sembrò di una tristezza infinita, tanto che avrei voluto abbracciarlo e stringerlo forte per consolarlo; ma restai immobile. Poi il momento passò e in quello successivo le guardie fecero irruzione nel giardino.
Non ne rimasi tanto sorpresa. Appena le vidi capii che era stato il giovane al mio fianco a chiedere all’oste di mandare qualcuno al castello per avvertirli che mi trovavo lì.
Non ne rimasi nemmeno delusa. Il suo desiderio di proteggermi mi mandava tra le braccia di uno sconosciuto, ma me ne sentivo comunque lusingata.
In cuor mio sapevo che sarebbe finita così, fin da quando mi ero issata sul parapetto per scappare dalla mia stanza. Ora però mi sentivo rammaricata di averlo fatto, perché dopo questa sera avevo un tormento in più. Un cuore gonfio di lacrime che piangeva all’idea di non rivedere mai più il giovane seduto al mio fianco.
La mia balia mi fece alzare e circondandomi con un braccio le spalle mi guidò verso l’uscita, scortate dalle guardie. Non mi voltai a guardarlo per un’ultima volta. Temetti che se lo avessi fatto, il cuore mi si sarebbe infranto, lacerandomi il petto.
Una volta ritornati a palazzo mi chiusi nella mia stanza. Non volevo vedere nessuno; nemmeno i miei genitori. Non avevo bisogno di andare a controllare, per sapere che avevano messo delle guardie sotto il mio balcone, per impedirmi di scappare nuovamente.
Sul letto, la massa informe di vestiti e accessori che vi avevo riversato sopra era sparita. Tutto era stato riordinato. Anche il vestito azzurro da paesana che indossavo poco prima mi era stato tolto dalle ancelle e sostituito con una camicia da notte di seta bianca. L’unica traccia rimasta a svelare che gli avvenimenti di quella notte non erano stati solo il frutto della mia immaginazione, era l’enorme voragine che sentivo nel petto.
Mi gettai sul letto e affondai la faccia nel cuscino. Pensai che quella notte non sarei riuscita a chiudere occhio. Invece pochi minuti dopo mi addormentai di botto, come se qualcuno avesse di colpo spento l’interruttore.
Mi svegliai con il cinguettio degli uccelli. Il sole doveva essere sorto da un pezzo, perché la camera era già inondata di luce. Ecco, in fine era giunto il giorno del mio funerale.
In quel momento i miei genitori irruppero nella stanza senza farsi annunciare. Strano. Forse erano ancora talmente adirati per la mia fuga della sera precedente, da infischiarsi dell’etichetta.
«Il principe ha ritirato la proposta di matrimonio». Esordì mio padre, tutto trafelato. Lo dovetti guardare con una faccia inebetita, perché mi scrollo per le spalle dicendo: «Non ti vuole più sposare».
Pian piano la frase prese significato nella mia testa.
«Speravamo che l’incidente di ieri sera non arrivasse alle sue orecchie. Invece qualche vipera deve aver parlato. Si dev’essere vergognato del tuo comportamento sconsiderato. Non c’è altra spiegazione».
Stentavo a crederci, potevo essere davvero così fortunata?
«Un messo ha appena portato il suo messaggio», continuò mio padre. «Ma è strano perché verrà comunque oggi e chiede di incontrarti».
Questo era davvero bizzarro, se non veniva a chiedermi in sposa, perché domandava di vedermi.
«Forse vuole assicurarsi che non ci sentiamo offesi per il ritiro della sua proposta». Ipotizzo mia madre. «Una visita di cortesia, per mantenere buoni i rapporti».
Nessun problema da quel punto di vista, ora che non mi voleva più sposare mi stava molto, molto simpatico.
La mia euforia per il nuovo stato delle cose, non durò però a lungo. Ormai ero in età da marito e prima o poi si sarebbe presentato un altro pretendente alla mia mano. Non mi sarebbe mai stato possibile scegliere indipendentemente il mio compagno; e chi desideravo era comunque completamente irraggiungibile.
Cercai di non demoralizzarmi troppo e riempiendo i polmoni con un lungo respiro, provai a godermi un po’ il momento di vittoria.
Mentre una delle mie dame di compagnia finiva di acconciarmi i capelli per rendermi presentabile, un domestico venne ad avvertirmi che l’incontro del principe con i miei genitori si era ormai concluso e pregava di avere un colloquio privato con me. Dissi che lo avrei ricevuto in giardino.
La giornata era tersa e il sole mi ferì gli occhi quando uscii all’aperto nel soleggiato mattino. Una delle ancelle che mi accompagnavano mi indicò una figura che stava in piedi vicino alla fontana. Mi avviai per andargli incontro sfoggiando il mio sorriso migliore. Ora che non voleva più sposarmi ero decisamente ben disposta nei suoi confronti.
Dovette accorgersi del mio arrivo dal suono che facevano i miei tacchetti, e quelli delle mie ancelle dietro di me, sull’acciottolato, perché si girò a guardarmi. Mi immobilizzai di colpo. Non era possibile. Il mio salvatore se ne stava in piedi a una decina di metri da me guardandomi con un’espressione indecifrabile sul viso. Il sole faceva risplendere la sua figura, come se fosse stato creato solo allo scopo di avvolgere la sua persona.
Per un secondo pensai potesse essere il valletto del principe che dovevo incontrare, ma subito scartai quella possibilità.
Perché non me lo aveva detto? Perché me lo aveva tenuto nascosto? Mi aveva presa in giro? Mi aveva conosciuta ed era rimasto tanto deluso da me da ritirare la proposta di matrimonio?
Ero conscia della presenza delle damigelle al mio fianco, che mi guardavano interrogative. Ma desideravo solo voltarmi e scappare. Lui dovette leggermelo in faccia perché alzò una mano, come a volermi trattenere, e si precipitò a dire: «Vi prego restate», e dopo una pausa aggiunse, «vorrei parlarvi in privato se permettere».
Dopo un attimo di esitazione acconsentii. Volevo delle risposte. Congedai le ancelle con un movimento della testa. Queste per un momento non si mossero, interdette, ma poi si allontanarono rientrando nel castello.
Il principe annullo la distanza tra noi con passi lenti e calcolati, come se un movimento troppo repentino avesse potuto farmi scappare.
«Vedo sul vostro viso che siete adirata». Non sapevo se quello era l’aggettivo adatto a definire il mio stato d’animo.
«Perché non mi avete detto chi eravate, quando voi sapevate perfettamente ch’io fossi?», chiesi, alzando il viso per guardarlo negli occhi. Parve in imbarazzo.
«Volevo, ma poi non ci sono riuscito. Perdonatemi», rispose.
«Avete annullato la proposta di matrimonio. Una volta che mi avete conosciuta sono diventata indegna delle vostre attenzioni. Vi ho così deluso?».
Sembrò come se qualcuno gli avesse tirato una botta in testa.
«No, no avete frainteso», rispose agitato. «La mia proposta vi aveva così turbata da farvi fuggire dal castello, mettendo in pericolo la vostra vita. Avevo pensato solo a me stesso. Non avevo preso in considerazione i vostri sentimenti», e aggrottando le sopracciglia aggiunse: «Non vi avrei mai costretta a un matrimonio che non desideravate. Sono stato uno sciocco superficiale, non mi ero reso conto di cosa avevo messo in gioco. Mi sono lasciato accecare dai miei sentimenti per voi».
«I vostri sentimenti per me? Come potevate provare qualcosa nei miei confronti se non ci eravamo mai incontrati prima?». Lui arrossì. Poi si mise a camminare verso la fontana, io lo seguii e lì ci sedemmo l’ungo il bordo.
«Non è così, io vi conoscevo da tempo». Come poteva essere? Attesi che proseguisse e poco dopo lui riprese. «Un anno fa i miei genitori mi hanno mostrato un vostro ritratto. L’avevano commissionato a un noto pittore come regalo per il vostro compleanno». Quello in camera mia pensai, mi era stato regalato giusto un anno prima dai regnanti di un reame confinante. Simbolo della buona amicizia che correva tra i nostri paesi.
«Non avevo mai visto ragazza più bella in vita mia», disse voltandosi a guardarmi. Io avvampai per l’imbarazzo, ma non riuscii a staccare i miei occhi dai suoi.
«Decisi che dovevo vedervi di persona, e scoprire se dentro eravate bella come lo eravate fuori. Non volevo venire a palazzo a presentarmi ufficialmente, sapevo per esperienza che molte dame si atteggiano in modo diverso nelle occasioni pubbliche rispetto a quando sono con pochi intimi. E io volevo vedere la vera voi».
Non riuscivo a crederci, questa confidenza mi lasciava sbalordita.
«E come ci siete riuscito?», domandai.
Lui inarcò un sopracciglio «Sapevate di avere una porticina diroccata nelle mura sul lato est del giardino?».
Ah certo, la porta d’emergenza assolutamente impenetrabile dall’esterno. Come dimenticarla.
«Siete entrato da lì?», chiesi.
«Si». Sembrava molto imbarazzato e a disagio per aver dovuto fare una simile ammissione. Il mio cuore invece stava conoscendo vette di felicità mai toccate prima.
«Molte volte?», domandai, perché lui non accennava a voler proseguire.
«Diverse», ammise. «Venivo a guardarvi di nascosto mentre passeggiavate nel parco o chiacchieravate con qualche altra dama. Oppure la sera quando vi fermavate per ore, sognante, ad osservare la luna dalla vostra terrazza o disegnavate sul vostro taccuino».
Credo che la parola rosso non si potesse nemmeno lontanamente avvicinare al tono fosforescente che aveva assunto la carnagione del mio viso. No, per definire quel colore avrebbero dovuto coniare un nuovo termine. Certo che la sicurezza nel mio palazzo era davvero pessima.
Si passò una mano tra i capelli, e fece un risolino imbarazzato. «Accidenti! ora penserete che sono un pazzo maniaco». Io pensavo che era adorabile.
Le parole mi uscirono incontrollate insieme al respiro prima che riuscissi a fermarle. Passando direttamente dal cuore alle labbra.
«Io vi amo».
Lui si voltò a guardarmi, con un’espressione di controllata speranza sul viso. Come se temesse di aver male udito, come se non osasse sperare per poi vedere i suoi sogni infranti. I suoi occhi mi supplicavano di ripeterlo e io che non desideravo altro, lo accontentai.
«Io vi amo».
Il suo viso si accese del sorriso più dolce e luminoso che avessi mai visto. Mi afferrò le mani, le strinse forte e portandosele alle labbra vi depose sopra un lungo bacio. Poi se le portò al cuore e fissandomi negli occhi mi chiese se volessi diventare sua moglie. Il mio cuore impazziva di gioia. Certo che volevo diventare sua moglie. Ero scappata dal castello per fuggire al mio destino e invece senza saperlo gli ero andata incontro.
Ci alzammo e sempre tenendoci per mano ci avviammo verso il palazzo. C’era un matrimonio da annunciare. D’un tratto però mi resi conto di una cosa. «Aspettate», dissi, «io ancora non so come vi chiamate».
Lui mi guardo con tanto d’occhi. Poi scoppiammo tutti e due a ridere.


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