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FIABE


Aili
Stella

«Balia, credo di aver caricato tutto. Se cavalco di buona lena in soli tre giorni dovrei essere a destinazione. Arriverò tre giorni in anticipo sul mio compleanno!», gridai mentre, sistemando le briglie del cavallo, mi giravo verso l’ingresso della nostra abitazione. «Oh no, ti prego, non fare quella faccia».
La mia balia se ne restava sull’uscio con gli occhi rossi e le guance inondate di lacrime, stingendo e mordicchiando convulsamente un fazzolettino di stoffa. Mi stringeva il cuore vederla in quello stato. Avrei voluto ci fossimo salutate con il sorriso sulle labbra. Avrei voluto che il suo ultimo ricordo di me, fosse di una ragazza forte e coraggiosa. Invece la sua disperazione mi stava contagiando e iniziavo già a sentire le lacrime che mi pizzicavano gli angoli degli occhi, preannunciando la loro fuoriuscita imminente. Maledizione, non volevo farle vedere quanto in verità fossi spaventata.
«Sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato», le dissi prendendola per le mani e sottraendo il fazzoletto alla tortura dei suo denti, «è la cosa giusta».
«Vorrei che ci fosse un’altra soluzione», disse lei tra i singhiozzi.
«Lo so», dissi, “lo vorrei tanto anch’io”, pensai. La stinsi forte tra le braccia. Era l’unica madre che avessi mai conosciuto. Quella vera era morta quando avevo poco più di anno, non avevo nessun ricordo di lei. La balia mi aveva cresciuta come fossi figlia sua. Sempre insieme e ora la stavo lasciando sola.
Ci separammo e ci guardammo negli occhi sorridendoci. Almeno io sorridevo, lei fece quello che interpretai come un sorriso, ma pareva più una terribile smorfia. Mi diressi verso il mio cavallo e dopo una breve carezza al muso della giumenta, con un balzo saltai in sella. Tenendo strette le redini tra le mani, indirizzai la puledra verso la stradina in terra battuta che passava adiacente la nostra abitazione. Mi girai un’ultima volta verso la mia balia, che ora pareva un fiume in piena tante erano le lacrime che le sgorgavano dagli occhi. Ma non dissi niente, non c’erano più parole, ci eravamo già dette tutto e gli occhi avevano compensato quello che le bocche non avevano avuto il coraggio di dire. Con un ultimo sorriso la salutai poi, con un colpo delle gambe e uno schiocco della lingua, incitai la cavalla al galoppo e partimmo per il viaggio la cui fine, avrebbe decretato il termine anche della mia vita.

Quasi diciassette anni prima

In una terra lontana, vi erano due regni confinanti governati da due re sciocchi e invidiosi. Un giorno in uno dei due castelli, quello del regno del nord, si presentò un vecchio dalla lunga veste, che poggiava la sua canuta figura su un contorto bastone dal pomolo intarsiato. L’uomo si presentò al re come un grande mago e si offrì di prestargli i suoi servigi. Con l’andare dei giorni però, dopo essere riuscito a guadagnarsi la fiducia del sovrano, il vecchio avvelenò la mente del re, acuendo le rivalità e le invidie con il regno confinante, fino a farle sfociare in una sanguinosa guerra.
Armate le sue truppe, il re invase il regno limitrofo, ma non fidandosi a lasciare la sua regina e suo figlio di soli sei anni senza una vera protezione nel palazzo, preda di possibili spie e infiltrati, li portò di nascosto in una locanda sul confine dei due reami e ordinò al vecchio mago di vegliare su di loro in attesa della vittoria e del loro ricongiungimento.
Il fato volle che in quello stesso ostello si fermasse per cercare ricovero, sotto mentite spoglie, anche la sovrana dell’altro regno, quello del sud, fatta fuggire da palazzo perché si sottraesse alla furia della battaglia e potesse salvarsi in caso di una possibile disfatta. La regina era accompagnata solo da una fidata balia che l’accudiva con dedizione in un momento così delicato; la sovrana infatti aveva le doglie, stava per mettere al mondo il futuro erede al trono.
Sentendo grida di dolore la regina, seguita dal principe e dal mago, cercò l’origine di quei lamenti e una volta trovata la partoriente, si prodigò per assisterla. Nacque una bellissima bambina, ma tra lo sconcerto di tutti, si accorsero che la piccola non respirava e il suo cuore non batteva. La vita aveva lasciato quel piccolo corpo.
In quel frangente il mago vide un’inaspettata occasione per tessere un altro filo della sua tela. Disse che esisteva un modo per salvare la bambina, un potente sortilegio di magia oscura, ma qualcuno doveva donarle metà del suo cuore. La madre si disse subito disponibile a concedere anche tutto il suo, se questo avesse riportato in vita la piccola, ma il vecchio disse che per fare in modo che la magia fosse efficace, sarebbe servito un cuore più piccolo, che si adattasse al corpicino della neonata. Tra i presenti in quella stanza, l’unico cuore con cui il rito avrebbe avuto efficacia, era quello del giovane principe. Aggiunse inoltre che avendo tutti gli incantesimi dei limiti, questo sortilegio avrebbe avuto effetto fino al compimento dei diciassette anni della bambina. Entro la mezzanotte del giorno del suo diciassettesimo compleanno, la fanciulla avrebbe dovuto ridare al principe la metà del cuore che lui le aveva donato. In caso contrario a perire non sarebbe stata la ragazza, ma il principe stesso. La madre del ragazzino era oltremodo spaventata e cercò di opporsi, ma il giovane era così turbato dalla sofferenza della donna che teneva tra le braccia quel piccolo corpo inanimato, che fu irremovibile e acconsentì. Il mago allora, senza fermarsi in ulteriori indugi, fece roteare il suo bastone, lo protese verso il soffitto e dopo aver pronunciò una formula magica in una lingua oscura, lo batté con forza sul pavimento. In quel momento spire luminose partirono dal suo fusto e si insinuarono nel petto del piccolo principe, facendolo sobbalzare. In un attimo ne uscirono, avvinghiate a un piccolo oggetto pulsante e lo trasportarono dentro al corpo della neonata. Pochi istanti dopo il torace della bambina si alzava, i suoi polmoni stavano cercando ossigeno. I suoi occhi si aprirono e si guardò intorno per un momento, per poi scoppiare in un pianto cristallino.
La regina, madre del principe, prima di congedarsi dalla stanza col principino per mano, ricordò alla donna, di cui non sapeva nulla e che non aveva riconosciuto quale sovrana del regno del sud, che la vita del suo unico figlio era ora nelle sue mani e in quelle di sua figlia. Le dispiaceva che avessero solo diciassette anni da vivere insieme, ma di ricordarsi che erano anni regalati grazie al cuore generoso del suo bambino e che se non si fossero fatte vive loro al castello entro la fatidica data, avrebbe sguinzagliato guardie per tutti i regni finché non le avessero trovate. E che Dio avesse pietà di loro, perché lei non ne avrebbe avuta, né per loro né per i loro cari.
Il mago intanto si era allontanato dalla locanda. Muovendosi tra le ombre era riuscito a passare inosservato fino al centro della battaglia e a raggiungere i due re che duellavano furiosamente. Si appostò dietro la statua di un cavaliere sul suo destriero e da lì, non visto, prese a formulare un sortilegio. Stregò le spade dei due contendenti, che subito sfuggirono al loro controllo. Le due armi affilate volarono in aria tra gli sguardi sbigottiti dei due sovrani. Dominate da una forza che loro non potevano vedere, le spade presero velocità, vorticando in aria per puntare poi dritte al petto del rivale. I due re non ebbero nemmeno il tempo di provare a scappare, vennero trafitti dalla spada dell’avversario e perirono sul colpo, accasciandosi sul duro lastricato, così, uno dinanzi all’altro.
Il mago, nello spaesamento generale delle truppe, per la morte dei loro re, si erse al ruolo di comandante delle guarnigioni del regno del nord e ordino l’eliminazione totale di chiunque si fosse opposto all’unione dei due reami sotto la sovranità della regina del settentrione e del futuro re, il principe. Ordinò ad una armata di recarsi alla locanda dove alloggiava la sovrana e il figlio e di scortarli lì, nel loro nuovo castello.
Comandò inoltre che fosse perlustrato il palazzo alla ricerca della regina del sud e che fosse eliminata seduta stante, così che della stirpe reale meridionale non rimanesse più traccia.
Intanto nell’ostello la notizia della disfatta del regno del sud era già arrivata alle orecchie degli ospiti. I locandieri, fedeli alla stirpe reale del meridione, caricarono la povera regina rimasta senza regno con la bambina in fasce sopra un carretto trainato da un vecchio mulo e guidato dalla fidata balia, così che potessero scappare lontano, avere salva la vita e un giorno forse tornare a reclamare il reame.

Il tempo in cui si svolge la nostra storia

Cavalcai al galoppo fino a che la mia abitazione non scomparve alla vista. Poi feci fermare la cavalla e mi concessi un momento di debolezza, scoppiando in lacrime.
Una volta ripresa, mi asciugai gli occhi e tirai su con il naso. Mi sentivo uno straccio.
«Forza bella», dissi alla cavalla, in verità più per incoraggiare me che lei, «facciamo questa cosa», e ripartimmo al trotto lungo il sentiero di terra dorata.
Dopo diverse ore di viaggio scorsi un fiumiciattolo che serpeggiava a poca distanza dalla strada. Avevo terminato l’acqua nella fiasca, così smontai dalla sella e condussi la puledra per le redini verso il ruscello, di modo che potesse abbeverarsi. Prima di sera avrei dovuto trovare una buona locanda dove fermarmi a passare la notte. Buona sì, ma soprattutto economica viste le mie scarse finanze. Con la cavalla al mio fianco che lappava avidamente l’acqua fresca, mi chinai a riempire la fiasca del liquido trasparente e rimasi a guardare la mia immagine che si rifletteva nell’acqua increspata. Avevo uno sguardo spento e truce, quasi non mi riconoscevo più. D’un tratto dietro alla mia figura riflessa apparve un’ombra, ci misi solo un secondo per metterla a fuoco, ma prima che riuscissi a girarmi per cercare di difendermi, mi sentii afferrare per le braccia e tirare indietro. Venni buttata bruscamente a terra dal colosso d’uomo che avevo visto riflesso nell’acqua e sentii tutto l’ossigeno fuoriuscire dai miei polmoni. Lo sentii legarmi i polsi dietro alla schiena, con quello che doveva essere un grosso spago. Il panico e l’adrenalina iniziarono a scorrermi nelle vene. Quando mi issò in piedi tenendomi per le spalle e potei respirare di nuovo, mi accorsi che non era solo. Altri due uomini si stavano occupando della mia giumenta e cercavano di calmarla. Mi bastò un colpo d’occhio per classificarli come briganti della peggior specie. Ma dai, ero appena partita, si poteva essere più scalognate? Una parte della mia mente trovava la situazione esilarante, tanto era incredibile tanta sfortuna. L’altra parte, beh, aveva solo una fifa nera.
«Co.. cosa volete?», chiesi.
«Co.. cosa vogliamo?», mi fece il verso uno dei tre, e mi afferrò il mento con una mano. «Sole te mia bella gallinella. O meglio i soldini che ci frutterai una volta che ti avremo venduta. Potresti essere acquistata come schiava, ma visto questo tuo bel faccino, forse potrebbe comprarti qualcuno interessato a trovarsi una brava mogliettina».
Il suo alito sapeva del peggiore dei liquori e quasi svenni per i suoi effluvi, ma poi mi lasciò il viso, si scostò e, dopo un accenno della testa al compare dietro di me, mi sentii sollevare e girare. L’omaccione che prima mi teneva ferma, mi caricò in spalla, neanche fossi un sacco di sterpaglie.
Stava succedendo tutto troppo velocemente. Cosa dovevo fare? Cosa potevo fare per uscire da un simile guaio? Mi passò per la mente di mettermi a strillare a pieni polmoni, ma chi poteva mai sentirmi? Eravamo nel bel mezzo del nulla e dubitavo che gli scoiattoli o le talpe sarebbero accorse in mio aiuto. Guardai la mia puledra. Trottava tranquilla al fianco di ‘alito da svenimento’, mentre lui le dava colpetti gentili sul collo. Maledetta traditrice!
Risalimmo verso la strada. Sul ciglio del sentiero, trainato da due muli, c’era un carro coperto, con una piccola finestrella per lato bloccata da grate in ferro. Altri due malviventi che si occupavano di tre bellissimi stalloni si girarono nella nostra direzione.
«Salutate la nostra nuova ospite», esclamò ‘alito da svenimento’, che ormai avevo inquadrato come il loro capo, mentre armeggiava con la sbarra di ferro che teneva bloccate le porte anteriori del carro. I suoi compari scoppiarono in una fragorosa risata. Poi, lo vidi afferrare un coltello.
«Questa lì dentro non ti serve. Non vorrei rovinasse la pelle alla mia bella mercanzia».
Con un taglio netto mi liberò i polsi dalla ruvida corda. Poi spalancati gli sportelli del carro, mi spinse dentro, per poi richiuderli fragorosamente dietro di me. Li sentii parlare dall’esterno e dopo qualche scalpiccio e uno strattone, sentii il carro mettersi in movimento.
L’atterraggio era stato più morbido di quanto mi fossi aspettata. Cercai di alzarmi per vedere su cosa fossi atterrata. Appena gli occhi mi si abituarono alla penombra, vidi che sotto di me stava sdraiato un bel ragazzo. Mi cingeva per la vita con le mani e mi guardava con un mezzo sorriso sghembo, che gli incurvava solo uno degli angoli della bocca.
«Salve», disse lui.
Di scatto mi allontanai dalla sua persona, andando a sbattere nel movimento la schiena contro una delle pareti del carro.
«Ehi tranquilla, non ti farò del male».
«Chi sei?», domandai dopo un attimo di tentennamento.
«Un prigioniero come te».
«Dove… dove ci stanno portando?», chiesi.
«In qualche paese dei reami unificati da quello che ho capito. Ma non so niente di preciso, sono qui dentro da solo un paio d’ore più di te», rispose lui. «L’ultima cosa che ricordo è una botta in testa mentre uscivo da una locanda. Poi mi sono risvegliato qui dentro», terminò la frase con un altro di quei sorrisi storti e furbi.
I reami unificati; era lì che anch’io ero diretta. Almeno non mi stavano portando lontano dalla mia destinazione.
«Che ci facevi da sola per queste strade, dov’eri diretta?», domandò lui, ma io lo ignorai , non era certo affare suo.
Iniziai a guardarmi intorno alla ricerca di qualsiasi cosa potesse tornarmi utile per fuggire. Un sasso, un bastone, qualcosa di appuntito da usare come arma contro il primo che avesse aperto gli sportelli della mia prigione e che mi desse quei secondi di vantaggio, che mi permettessero di gettarmi fuori dal carro e scappare sfruttando l’effetto a sorpresa.
«Se stai cercando un qualsiasi tipo di arma, perdi il tuo tempo. Il carro è completamente vuoto. Beh a parte noi si intende», e ridacchiò. Lo fulminai con gli occhi.
«Cosa diavolo ci trovi di così divertente in questa situazione?», strepitai.
Gli occhi mi si stavano riempiendo di lacrime per la rabbia e la frustrazione ed ero pronta a scaricare tutta la collera che avevo in corpo sul mio compagno di prigionia che ora mi guardava con gli occhi spalancati. Poi il suo viso si addolcì e con fare contrito disse:
«Scusami, sono stato un insensibile».
Ricacciai indietro le lacrime, non mi sarei fatta vedere così debole e spaurita, dovevo mantenere il controllo e restare lucida. Mi appoggiai alla parete del carro, distendendo le gambe che iniziavano a formicolare per la posizione accovacciata. Mi riempii i polmoni ed espirai con forza. Sarei uscita da li. Dovevo riuscirci. Vidi con la coda dell’occhio che il mio compagno di sventura mi guardava compiaciuto. Lo ignorai e mi girai dalla parte opposta.
A un certo punto, esausta, dovevo essermi addormentata, visto che mi svegliai di soprassalto. Guardandomi intorno vidi che ormai era buio pesto. Doveva essere notte fonda. Il rumore che mi aveva svegliata era quello di un temporale. La pioggia scrosciava violentemente sopra il tetto di legno. Lampi di luce entravano dalle due piccole finestre, tagliando l’oscurità quasi assoluta che regnava dentro il carro e forti boati squassavano l’etere. Qualcosa mi scivolò dalla spalla e di colpo rabbrividii per il freddo, la temperatura doveva essersi abbassata notevolmente. Guardai cosa mi era sceso dalle spalle e mi ritrovai in mano la giacca dell’altro prigioniero. Doveva averla poggiata sopra di me mentre dormivo. Che gesto gentile e premuroso, forse lo avevo giudicato male. Mi girai a guardarlo. Era appoggiato con la schiena alla parete del carro, le gambe leggermente piegate e le braccia a penzoloni sulle ginocchia. Pareva preoccupato e anche un po’ triste, sentimenti che mi parvero molto in contrasto con la strafottenza che aveva manifestato solo poche ore prima. Mi lasciò un po’ disorientata, ma come dargli torto visto la situazione in cui ci trovavamo.
«Grazie per la giacca», dissi e feci per tendergliela, ma lui sorridendo mi fece cenno con la mano di tenerla. Così finii per indossarla come si deve, infilandomi le maniche a dovere. Avevo troppo freddo per mettermi a discutere. Mentre mi allacciavo l’ultimo bottone, di colpo il carro si fermò bruscamente inclinandosi pericolosamente verso destra e facendomi sbandare. Due mani salde mi afferrarono al volo evitandomi un brutto bernoccolo. Nel giro di poche ore era già la seconda volta che finivo tra le braccia di quello sconosciuto. Mi voltai a guardarlo per ringraziarlo. Ma lui era con la testa altrove, intento ad ascoltare le voci che provenivano dall’esterno della nostra gabbia di legno. Eravamo fermi e completamente sbilanciati. Una ruota doveva essere sprofondata nel fango e averci fatto incagliare. Le voci attraverso le pareti si fecero sempre più concitate. A un certo punto sentii che qualcuno armeggiava con la barra di ferro che teneva chiuse le porte e il cuore prese a battermi ferocemente nel petto. Il mio compagno mi scostò di lato gentilmente, ma con risolutezza.
«Tieniti pronta», disse.
Andò a posizionarsi davanti all’entrata. Appena i battenti si schiusero, lui alzò una gamba e tiro un calcio potente alle due ante che si spalancarono di colpo, facendo volare a terra le sagome di due individui. Poi mi afferrò per mano e con un balzo mi trascinò fuori sotto la pioggia battente.
Il resto del gruppo di malviventi ci fu subito addosso. Il ragazzo schivò un pugno abbassandosi velocemente e lo restituì senza indugi al mittente, colpendolo alla mandibola e facendolo finire a bocconi nel fango. Riuscivo a seguire i movimenti solo a intermittenza tra un lampo e l’altro, impedita anche dall’acqua scrosciante che mi entrava negli occhi. Nel combattimento a mani nude non potevo essergli di nessun aiuto. Mi guardai intorno, cercando qualsiasi cosa potesse venire in nostro soccorso e scorsi i cavalli che spaventati se ne restavano in disparte vicino agli alberi che delimitavano il sentiero. Con loro c’era anche la mia cavalla. Mi misi a correre in quella direzione. Mancavano pochi metri quando mi sentii afferrare da dietro e piombai a terra sul selciato. Cercai di voltarmi e vidi che il mio inseguitore era caduto con me. Mi guardava sogghignando. Alzai una gamba e gli tirai un calcio con il tacco dritto sui denti, riuscendo a liberarmi dalla sua presa. Mi rialzai e coprii più velocemente che potevo lo spazio che mi separava dalla mia puledra, issandomi immediatamente sulla sella appena la raggiunsi. Il brigante che mi aveva atterrata si era già rimesso in piedi e cercava di afferrarmi per la veste. Con uno strattone mi divincolai e partii al galoppo verso il centro dello scontro. Il ragazzo con un gancio ben piazzato stava atterrando l’ultimo dei malviventi ancora in piedi. Ma non sarebbero rimasti a terra per molto. Si stavano già rialzando. Gli arrivai alle spalle e lui si girò di scatto, pronto a sferrare un altro colpo. Quando si accorse che ero io in sella alla mia giumenta parve sorpreso.
«Andiamo», gli gridai, tendendo una mano. Lui fece quel suo mezzo sorriso sghembo e afferratami la mano, si issò sul dorso dell’animale. Appena lo sentii saldo dietro di me, incitai la cavalla a partire. Lei recepì prontamente il comando e subito sfrecciò galoppando nel folto del bosco.
Quando fummo sicuri di aver distanziato i briganti a sufficienza e che non eravamo inseguiti, feci rallentare la cavalla, che continuò ad avanzare al passo sul terreno irregolare. La pioggia continuava a cadere copiosa, ma il folto degli alberi ne attutiva in parte la caduta.
«Da che parte andiamo?», chiesi tutta intirizzita.
«Conosco questi boschi, abbiamo già varcato i confini dei reami unificati», disse lui, «se continuiamo a procedere verso est, tra non molto dovremmo arrivare a un villaggio».
Feci un cenno di assenso con la testa.
Dopo pochi minuti già non avevo più sensibilità alle dita e il corpo era percorso da tremiti incontrollabili per il troppo freddo. Ci mancava solo che iniziassi a battere i denti.
Le sue mani si allungarono ad afferrare le redini, scostando le mie che ormai erano due ghiaccioli.
«Cerca di riscaldarti le mani», disse.
Non protestai, ero troppo sfinita ed infreddolita per mettermi a fare la dura e non ci tenevo proprio a trovarmi con due moncherini al posto delle estremità.
Mentre con una mano continuava a tenere le briglie, con l’altra mi cinse il busto abbracciandomi e spostando il mio corpo più vicino al suo, fino a far aderire completamente la mia schiena al suo petto.
Avvampai per l’imbarazzo, ma non mi sottrassi. Non solo perché il tepore che emanava il suo corpo mi aiutava a tenere sotto controllo i brividi, ma anche perché in un modo del tutto insensato, non mi sentivo per niente a disagio, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Il freddo doveva avermi surgelato anche il cervello, non c’erano altre spiegazioni.
Era ancora notte fonda quando arrivammo al paese. La vista della borgata mi scioccò, lasciandomi senza fiato. Non era solo per il buio della notte o per il temporale che potevano ingannare la vista; il villaggio presentava un degrado e una decadenza che non avevo mai visto prima.
Le poche abitazioni erano fatiscenti, le strade dissestate. Anche la vegetazione sembrava soffrire di un qualche tipo di malattia degenerativa.
«Cosa è mai successo in questo luogo?», chiesi con gli occhi sgranati.
Il mio compagno non rispose e si limitò a indirizzare la cavalla giù per il declivio che portava verso il borgo. Ci fermammo davanti un fienile adiacente un’abitazione e scese da cavallo, aiutandomi poi a fare altrettanto.
«A chi appartiene questo posto?», domandai mentre mi guardavo intorno.
«Ad amici, non hai niente da temere».
Lui aprì il grande portone sbilenco del pagliaio, vi portò dentro la puledra e mi fece segno di aspettare. Ne uscì quasi subito e una volta richiuso l’uscio, si diresse verso la porta d’ingresso della casa, dove bussò sul legno dalla vernice scrostata. All’interno della fattoria al piano superiore si accese una flebile luce e poco dopo la porta si schiuse, restando però ancora fissata con un catenaccio di sicurezza. Attraverso la fessura vidi il viso di una donna di mezz’età dal fare spaventato e sospettoso. Temetti non ci avrebbe fatto entrate. Quando però i suoi occhi si posarono sul giovane accanto a me, la sue espressione cambiò, passò dal sollievo al preoccupato nel giro di pochi secondi. Sganciò immediatamente il chiavistello e spalancò la porta.
«Deam, mio signore… ma cosa?», disse, sfiorandogli una spalla e sondando con occhi irrequieti ogni centimetro del suo corpo. «Dio mio, siete ferito!».
Ferito? Mi accorsi solo ora della chiazza rossa sul fianco sinistro della sua camicia. Mi sentii quasi mancare e mi portai le mani alla bocca.
«Non ti preoccupare Iridea è solo un graffio», disse lui.
«Presto entrate», esclamò agitata scostandosi e afferrandolo per un braccio. «Chiudi la porta per favore», disse distrattamente rivolta a me.
Lo condusse dentro all’abitazione, mentre io restavo indietro per chiudere la porta. Dopo un corridoio lungo un paio di metri, la casa si apriva in una grande stanza. Un cucinino sconquassato, un lavabo e un ripiano pieno di stoviglie sulla sinistra, un vecchio tavolo in legno con sei sedie nel centro della stanza, vicino a una poltrona imbottita dalla federa lisa e sgualcita. Un paio di cassettoni si appoggiavano alla parete in fondo alla sala, mentre un grande camino occupava buona parte di quella di destra. Adiacente al muro del corridoio di ingresso salivano le scale verso il piano superiore. I muri erano affrescati alla buona, e ingombri di arnesi da lavoro. A dispetto della sua apparenza esteriore la casa all’interno era povera, ma pulita e confortevole.
La signora, che, a quanto pareva, si chiamava Iridea, stava riaccendendo il fuoco, buttando un paio di paletti di legno sulla brace ancora scarlatta, mentre il ragazzo, che ora sapevo si chiamasse Deam, era stato fatto accomodare sul sofà e si stava sfilando la camicia aperta dai pantaloni. Aveva una grande macchia di sangue tagliata di netto da una striscia vermiglia che gli percorreva tutto il fianco. Mi sentii terribilmente in colpa per non essermi accorta che era ferito. La padrona di casa afferrò una pezzuola e dopo averla bagnata e strizzata in un catino si chinò a pulire il taglio e a rimuovere il sangue coagulato sulla pelle.
«Per fortuna avevate ragione, è una ferita superficiale, si sta già rimarginando», disse la donna con fare sollevato e iniziò a medicargli il taglio. «Cosa vi è successo? Dovete fare attenzione, se vi capitasse qualcosa…», la sua voce si incrinò. Mentre la donna parlava il viso di lui si era incupito ed emanava una profonda tristezza. Mi domandai il perché.
«Deam!».
La voce che aveva appena urlato il suo nome apparteneva a una ragazza che si stava fiondando giù dalle scale. Si butto ai suoi piedi e lo abbraccio di getto.
«Siete ferito? State bene? Cosa vi è successo?», lo incalzò lei dopo essersi separata da lui. Doveva essere di un paio di anni più giovane di me. Aveva un fisico agile e snello, capelli castani raccolti in una morbida crocchia, da cui scappavano un paio di ciocche ondulate. Era davvero graziosa, non capii subito il perché questo mi desse molto fastidio.
«Niente di preoccupante Lena, sto bene», e le diede un buffetto in testa sorridendole.
Oh no, cos’era questa sensazione che mi saliva dal basso ventre e mi stringeva lo stomaco? Ogni cellula del mio corpo vibrava di gelosia. Avrei voluto mettermi in mezzo per dividerli. Reclamarlo come… mio. Che diamine mi veniva in mente, lo conoscevo appena!
Mi salì pure il nervoso. Me ne stavo lì in piedi senza sapere che fare, fradicia come un pulcino. Forse me ne sarei dovuta semplicemente andare.
Allora perché non riuscivo a muovere i piedi?
Me ne stavo lì a fissare il pavimento pensando al da farsi, quando mi accorsi che Deam si era alzato e mi era venuto accanto.
«Iridea non vorrei essere troppo di disturbo, ma…», non fece in tempo a finire la frase che la donna si mise subito in moto.
«Santo cielo, ma certo, starete congelando con quei vestiti bagnati. A voi darò dei vestiti di mio figlio, avete più o meno la stessa taglia», disse a Deam. Poi rivolgendosi alla figlia continuò, «Lena ti spiace aiutare la signorina e darle uno dei tuoi abiti?».
Lena mi accompagnò al piano superiore nella sua camera da letto, dove mi offrì un asciugamano pulito con cui potessi tamponarmi i capelli e il corpo. Poi estrasse da un piccolo armadio un abito viola con una bella scollatura e un ricamo sul busto raffigurante una rosa schiusa. La ringraziai e lei mi lasciò sola così che potessi cambiarmi. Quando ebbi finito, ridiscesi le scale con l’asciugamano, il mio vestito bagnato e le scarpe in mano.
La sala era illuminata ora solo dal fuoco scoppiettante nel caminetto, della signora e di sua figlia non c’era traccia. Deam stava seduto sul divano. Lo aveva girato perché chi ci si fosse seduto potesse guardare verso il focolare. I suoi vestiti bagnati erano appesi a un filo tirato in mezzo alla stanza.
Quando si accorse di me mi sorrise e il cuore cominciò a galopparmi nel petto.
«Va meglio?», chiese.
«Molto», risposi sorridendogli a mia volta.
Andai al lavabo, dove vidi era stata preparata una tinozza piena d’acqua con un sapone in parte. Lavai e sciacquai i miei abiti e l’asciugamano. Poi li stesi accanto a quelli di Deam. E vi posai sotto le mie scarpe. Con quel tepore per la mattinata sarebbe stato tutto senz’altro asciutto.
«Lena questa notte dormirà in camera con la madre per cui tu puoi usare il suo letto. Io sarò nella stanza accanto, quella di suo fratello. Lui e suo padre sono via con il gregge», mi informò.
«Grazie», dissi.
Sarei dovuta andare di sopra a riposare, ma la verità era che non volevo ancora separarmi da lui.
«Posso restare qui davanti al fuoco un momento?», domandai guardando a terra verso i miei piedi scalzi.
«Certo», rispose, scostandosi per farmi spazio.
Mi sedetti accanto a lui. Il calore del fuoco mi stava rinvigorendo tutto il corpo, o forse era la sua presenza a farmi questo effetto? Non avrei saputo dirlo.
«Allora dove sei diretta… », e fece cenno con le mani per incitarmi a terminare la frase.
«Aili», dissi.
«Aili, è un nome grazioso», disse guardandomi negli occhi. «Allora dove sei diretta mia bella Aili?», ed ecco spuntare il suo mezzo sorriso sghembo.
Mi girai verso il fuoco perché sentii le guance che mi si incendiavano.
«Alla città del sud», risposi dopo un attimo di esitazione e vidi con la coda dell’occhio che lui inarcava un sopracciglio aspettandosi maggiori informazioni, «devo… devo vedermi con dei miei parenti perché una mia cugina si sposa». Buttai lì di getto. Non so perché gli raccontai quella balla immane, ma non potevo certo dirgli la verità. Mi girai verso di lui che ora guardava il fuoco con lo sguardo perso.
«In tempi così bui c’è ancora spazio per questo», fece lui.
«Questo cosa? L’amore», domandai.
«La speranza», rispose lui voltandosi verso di me.
I suoi occhi mi catturarono e ci lessi dentro una molteplicità di sentimenti che gli agitavano l’anima. Tristezza, paura, rabbia, ma ci vidi anche: forza, coraggio, determinatezza e speranza. Tanta speranza. Poi lui sbatté le palpebre e si rimise ad osservare la fiamma che pian piano stava consumando i ciocchi di legno.
«Cos’è successo in questo posto?», domandai allora, «io sapevo che i reami unificati erano governati da una regina e da suo figlio, ma come possono permettere un simile stato di degrado nel loro regno? E perché ho avuto l’impressione che ogni cosa fuori da questa abitazione fosse stata ricoperta da un che di velenoso e degenerativo?».
Se erano stati la sovrana e il principe a ridurre i loro cittadini in questo stato di miseria, allora io stavo per perdere la vita per assicurarla a un mostro. Ma com’era possibile che una persona capace di un atto così coraggioso e disinteressato, come quello che mi aveva riportata alla vita, fosse capace di questo. Può davvero una persona crescendo cambiare così tanto?
Deam sospirò, poi disse:
«Le cose sono complicate. La mente della regina è controllata e la sua vita appesa a un filo tra le mani di un burattinaio senza scrupoli. Il principe ridotto all’impotenza», si chinò, passandosi più volte con forza le mani sul viso e sulla testa e iniziò a parlare in modo agitato e convulso. «Io ho fatto quello che potevo. Ho cercato in tutti i modi di boicottare il suo nefasto operato ma… lei, non sono riuscito ad aiutarla… Tutti hanno affidato in me le loro speranze, anche quelli del regno del sud dopo che la loro stirpe reale si è persa in quella stupida guerra… e adesso, adesso prego solo che trovino la forza per combattere da soli e…», si bloccò di colpo voltandosi a guardarmi in viso con gli occhi sgranati. Senza che me ne fossi accorta avevo preso una sua mano tra le mie e gliela stavo stringendo.
«Scusami», disse lui facendo scivolare la mano fuori dalla mia stretta e alzandosi, «per un attimo ho perso il controllo, ma ora sto bene. Si è fatto tardi tra poche ore sarà l’alba, meglio riposare un po’».
«Si, ehm… certo», dissi confusa.
Mi alzai e mi avviai verso le scale, mentre lui rimaneva in piedi davanti al camino dandomi le spalle, con un braccio appoggiato alla cornice in pietra. Mentre salivo i primi gradini mi chiamò.
«Aili», mi girai verso di lui. «Andiamo nella stessa direzione, anch’io devo raggiungere la città del sud, se mi vorrai con te, ti farò da scorta finché non arriviamo», poi con il suo sorriso sghembo continuò, «tanto più che ho bisogno di un passaggio e tu sei l’unica che ha un cavallo e mi devi pure un favore per averti liberata dai briganti».
«Saremmo ancora in mano loro se io non ti avessi preso al volo con la mia giumenta prima che ti fossero addosso di nuovo», risposi.
Lui scoppiò a ridere. «Mi sa che hai ragione. Allora diciamo che siamo pari. Tu mi dai un passaggio, io ti faccio da guardia del corpo per ripagarti e torniamo pari un’altra volta ».
Gli sorrisi e dopo un’alzatina delle sopracciglia ripresi a salire le scale.
«Era un sì?», mi sentii rivolgere alle spalle.
«Era un sì», dissi mentre voltavo l’angolo delle scale. Lo udii ridacchiare di cuore. Era il più bel suono che avessi mai sentito.
Andai a dormire un po’ accigliata. Deam aveva scansato quel momento di involontaria intimità, quando avevo preso la sua mano tra le mie. Forse era vero, come avevo temuto, che era fidanzato con Lena, o forse semplicemente non gli piacevo io, o forse, chissà. Cercai di riportare la mente sulla retta via. Che rilevanza poteva mai avere, tra pochi giorni nulla avrebbe avuto più importanza per me. Fine. Stop. Addio. Si chiude il sipario. Allora perché c’ero rimasta così male.
Ero ancora sveglia mezz’ora dopo quando sentii le scale scricchiolare e la porta della stanza accanto chiudersi con un leggero cigolio.
Mi addormentai senza riuscire a riprendere il controllo dei miei pensieri, figuriamoci quello dei sentimenti. Continuarono a volare attraverso il muro che ci divideva, verso quel ragazzo eccezionale che era riuscito in così breve tempo a rubami il cuore. Già, peccato fosse solo in prestito e il momento della restituzione imminente.

La mattina trovai il mio abito asciutto, piegato su una sedia fuori dalla porta della mia stanza. Mi vestii e scesi da basso. Trovai Deam che litigava con la signora, mentre lei cercava di mettergli in una borsa, che pareva già colma, un paio di mele rosse. Quando mi vide si girò verso di me facendomi un largo sorriso che non so come, riusciva a illuminare tutta la stanza. Mi sentii sciogliere il cuore come neve al sole. Fantastico, se andavo avanti così, tempo due giorni e non avrei avuto più un bel niente da restituire al principe.
Le due mele volarono dentro la sacca in quel suo attimo di distrazione e lui si girò a protestare. Mi parve un momento prezioso di normalità in mezzo al delirio di quei giorni burrascosi.
Una volta pronti e bardata la cavalla ci avviammo salutati dalla signora Iridea e dalla figlia. Se tutto andava bene, entro la sera del giorno seguente saremmo arrivati a destinazione.
Alternammo cavalcate, camminate e riposi per non stancare troppo la giumenta. Seguivamo un sentiero che si snodava in un bosco che un tempo doveva essere di incomparabile bellezza. Ora faceva solo paura. Era lugubre e anche lì la sensazione di decadimento era palpabile.
Scoprii che la signora Iridea ci aveva rifornito di due coperte pesanti e di frutti dolci e succosi: mele, pere, uva. Il carburante ideale che ci serviva per affrontare quel lungo viaggio.
Nelle prime ore del pomeriggio trovammo un torrente che scendeva a valle. Deam disse che se ne avessimo seguito il tragitto saremmo arrivati dritti alla città del sud. Così deviammo lungo il suo corso. In quel luogo dove anche gli alberi, seppure verdi e rigogliosi, sembravano morenti, l’acqua era l’unica cosa che pareva ancora viva e incontaminata. La fonte della vita che a discapito di tutto, regalava ancora energia a quel mondo decadente.
Quando il sole scese all’orizzonte, decidemmo di accamparci. Quella notte avremo dormito all’addiaccio. Dopo aver raccolto dei sassi per delimitarne il perimetro e dei rami secchi come combustibile, Deam accese un fuoco. Stendemmo a terra le coperte dateci dalla signora Iridea e ci sedemmo davanti al falò. Durante il tragitto non avevamo quasi parlato, troppo impegnati a risparmiare le forze o a guardare dove mettevamo i piedi. Decisi che ora poteva essere un buon momento per azzardare qualche domanda.
«Perché ti stai recando alla città del sud?», chiesi.
Deam stava seduto con le mani posate ai lati del corpo a reggerne il peso e le gambe allungate con le caviglie accavallate.
«Perché ci abito», rispose, «sono nato… più a nord. Là ho ancora la mia casa. Viaggio molto per necessità tra le due».
«Hai fratelli? Sorelle?... Una fidanzata?», azzardai quell’ultima domanda buttandola lì con noncuranza, ma dovevo essere arrossita mentre la pronunciavo e il cuore aveva iniziato a battermi più forte mentre attendevo una risposta.
«No, siamo solo io e mia madre. In quanto a fidanzate…», fece un sorriso triste, «non mi sono mai permesso di avvicinarmi veramente a qualcuno e non avevo incontrato nessuno che fosse in grado di superare le barriere che ho eretto intorno al mio cuore fino a…», aveva parlato con lo sguardo perso nelle fiamme, ma adesso si era voltato a guardarmi. Quando i nostri occhi si incontrarono, il cuore mi sobbalzò nel petto accelerando i suoi battiti, poi lui riportò lo sguardo verso il fuoco rompendo il contatto. «Non fa niente, ormai non ha più importanza», concluse e si sdraiò con le braccia sotto la testa.
Rimasi un po’ delusa per come aveva troncato il discorso. Dopo un momento mi sciolsi i capelli che portavo raccolti in un morbido chignon e li lasciai cadere liberi lungo la schiena, poi mi coricai anch’io. Una ciocca sfuggì nella sua direzione e gli sfiorò un braccio. Lui si girò su un fianco e prese a giocarci con le dita.
Restammo così, in silenzio. Rimasi ferma senza muovere un muscolo, timorosa di poter rompere con anche solo un lieve spostamento quel labile contatto. Mi augurai che lo scoppiettio del fuoco nascondesse il suono del mio cuore, perché batteva così forte che temetti potesse uscirmi dal petto.
A un tratto un rumore nel sottobosco attirò la nostra attenzione. Mi alzai di scatto sui gomiti per guardare in quella direzione. La giumenta iniziò a nitrire e ad agitarsi spaventata. Un basso ringhio gutturale si alzò nella notte, e un grosso lupo grigio sbucò dalle tenebre digrignando i denti. Dietro di lui altre ombre si muovevano lentamente verso di noi. Balzammo in piedi.
«Lupi? No, com’è possibile? Non scendono mai dalle montagne così presto», mormorò Deam.
«Forse hanno anticipato il rientro», buttai lì io, avvicinandomi a lui con occhi sgranati su quelle pericolose creature. «Deam. Cosa…cosa facciamo?», chiesi, ormai raggelata dalla paura.
Lui si piegò ad afferrare un ramo infuocato nel falò e lo brandì davanti a se con una smorfia di dolore. Doveva essere bollente.
«Resta dietro di me e non allontanarti dal fuoco», mi ordinò.
I lupi continuavano ad avanzare con le orecchie basse. Ringhiando con ferocia iniziarono ad accerchiarci. I loro movimenti erano lenti e calcolati. Non avevamo più vie di fuga. D’improvviso quello che doveva essere il maschio alfa, balzò alla nostra destra pronto ad attaccarci. Deam alzò la torcia colpendo in pieno l’animale che si ritrasse uggiolando senza però rompere il cerchio che ci asserragliava. Se ci avessero assalito tutti insieme saremmo stati persi e temevo non avrebbero tardato molto a provarci. Anche Deam lo capì.
«Ora ti passerò la fiaccola. Io proverò a distrarli. Mi inseguiranno. Tu appena puoi corri a liberare il cavallo e fuggi», sussurrò.
«No, è una follia, ti saranno addosso subito», replicai sconvolta.
«Non c’è altra scelta», ribadì con forza. Lentamente passò nelle mie mani la torcia.
«Stai pronta», disse, poi senza darmi il tempo di replicare, con un urlo iniziò a correre verso i lupi che, presi alla sprovvista, si scostarono dalla sua traiettoria. Una volta ch’ebbe forzato il cerchio però, si misero subito a rincorrerlo. Io lasciai cadere la fiaccola e scattai verso la cavalla. Districai più velocemente che potevo il nodo che la teneva bloccata con le redini al tronco di un albero. Mi girai verso Deam in tempo per vederlo afferrare un grosso ramo e agitarlo davanti ai suoi inseguitori. Non lo avrei abbandonato. Scattai in sella, ma la puledra terrorizzata non voleva saperne di seguire i miei ordini.
«Andiamo. Ti prego. Dobbiamo aiutarlo», la incalzai. Ma lei non si mosse, iniziando invece a indietreggiare con le lunghe gambe.
Deam aveva ormai alle spalle la riva del torrente. Lo avevano bloccato. Il grosso lupo grigio gli fu subito addosso. Deam perse l’equilibrio e cadde in acqua insieme al lupo che lo sovrastava.
«No, Deam! Deam!», gridai con tutto il fiato che avevo in gola.
Lo vidi riaffiorare alcuni metri più avanti. Annaspava per restare a galla, ma la corrente era molto forte e lo ringhiottì subito. Poco dopo fu il muso dell’animale a riemergere tra la spuma vicino alla riva. Cercava di attaccarsi con le unghie alla terra per sfuggire alla potenza dell’acqua e dopo diversi tentativi di issarsi ci riuscì. Di Deam non c’era più traccia. Il panico mi percorse tutte le membra. Ero incapace di staccare gli occhi dal turbinio delle rapide. Pregavo di vederlo riapparire da un momento all’altro, ma la mente continuava a focalizzare la mia attenzione sulle rocce appuntite che affioravano affilate dall’acqua. Un ringhio basso e prolungato mi riportò sulla terra ferma. I lupi si erano riorganizzati e ora procedevano nella mia direzione. Ero la loro preda. Non persi un secondo. Feci voltare la cavalla nella direzione opposta al branco e la incitai alla fuga. Lei questa volta non si fece pregare e scattò come un fulmine costeggiando il fiume. I lupi però erano più veloci e subito ci furono alle calcagna. Un lupo nero balzo di lato cercando di morderle una coscia. Un secondo le si avventò sul collo facendole perdere stabilità. Lo zoccolo anteriore e posteriore sinistro persero aderenza al terreno e le gambe le cedettero facendoci cadere di lato. Scivolammo dalla riva finendo inghiottite dall’acqua del torrente. Mi attaccai con tutte le forze che avevo al collo della puledra che lottava per non affogare. L’acqua era ghiacciata e mi entrava per la bocca e le narici facendomi soffocare. Roteammo tra i flutti per un tempo che mi parve infinito, poi sentii che avevamo di nuovo del terreno solido sotto i piedi. Aprii gli occhi e vidi che eravamo ferme alcuni metri più in giù rispetto a dove eravamo cadute, ma sulla riva opposta, dove in una piccola insenatura, il terreno scendeva gradatamente nel fiume. Eravamo salve.
Guidai la giumenta all’asciutto. I lupi sull’altra sponda si muovevano irrequieti, incapaci di raggiungerci. Spostai lo sguardo lungo il corso del ruscello. Implorai Dio e tutte le divinità che conoscevo perché Deam fosse salvo. Doveva essere vivo. Dovevo crederci con tutte le mie forze.
Passai la notte cavalcando e camminando al fianco della puledra lungo la riva del fiume. Scrutavo ogni affioramento sospetto, ogni ombra lungo la riva che potesse sembrare un corpo umano, ma che immancabilmente si rivelava un tronco d’albero. Cercavo Deam disperatamente, incapace di darmi per vinta. All’alba uscimmo dal bosco. Mi sentivo sfinita. Davanti a me si apriva una pianura sconfinata attraverso la quale serpeggiava il torrente ormai ridotto a un placido fiumiciattolo. Sull’orizzonte potevo scorgere le sagome di una città. La città del sud. La mia destinazione.
Camminai vacillando fino a un grosso albero, mi chinai sulle ginocchia e semplicemente svenni.

Mi risvegliai che il sole non era ancora alto nel cielo. Non dovevo aver dormito che poche ore. Mi misi seduta e vidi la cavalla che brucava l’erba poco distante. Mi alzai in piedi spinta solo dall’inerzia. Avevo la mente vuota. Completamente svuotata.
Giunsi in città che iniziava già ad imbrunire. Sulla strada per arrivare non avevo incontrato che poche persone: un contadino con un carretto pieno di paglia trainato da un bue. Un paio di cavalieri che andavano in tutta fretta nella mia stessa direzione.
La città era l’emblema di tutto quello che avevo già visto nel reame. Degrado e decadenza. Riconoscevo a stento alcune strade e alcune piazze dai racconti della mia balia. Le aveva decantate come un tripudio di fasto e opulenza. Realizzazioni architettoniche di tale bellezza, che sarebbero dovute perdurare per i secoli come celebrazione della grandezza della mia dinastia. Ora non ne restavano che le ombre. Le porte e le finestre delle case sembravano tante bocche vuote, spalancate in un urlo silenzioso. Non un albero, non un fiore, nemmeno un filo d’erba crescevano su quel terreno. Solo nelle abitazioni in cui riuscivo a scorgere delle persone, le case parevano possedere ancora un po’ di calore. Come se l’energia dei suoi abitanti si trasferisse anche sugli oggetti che le circondava.
Trovai una scuderia, dove riuscii a vendere la mia cavalla per un buon prezzo. Era leggermente ferita per via dell’attacco dei lupi, ma si sarebbe ripresa presto. Non potevo più tenerla. Non ci sarebbe stato nessun viaggio di ritorno per me. La salutai con una carezza sul muso.
In una sartoria acquistai un abito già confezionato. Pareva un po’ troppo largo per la mia figura, ma non mi importava.
Trovare un alloggio non fu un problema. Mi sistemai in un piccolo ostello su una via secondaria. Feci preparare dalla moglie dell’oste un bagno caldo e mi lavai con cura. Gettai il mio vecchio abito, non mi sarebbe più servito. Una volta nella mia camera mi buttai sul letto. Non provavo più niente. Non avevo più lacrime. Non esistevo già più. Mi lasciai andare e mi addormentai. Sognai Deam.
Mi svegliai al tramonto del giorno successivo. Avevo dormito per quasi ventiquattr’ore. Avevo gli occhi e le guance incrostate di sale. Malgrado tutto sembrava avessi ancora lacrime da versare. Mi costrinsi ad alzarmi e a darmi una rassettata sciacquandomi il viso nel catino.
L’ostello che mi ospitava non faceva servizio di ristorazione, così uscii in strada alla ricerca di una locanda attrezzata. Ne trovai una poco più avanti sulla stessa via ed entrai. Sui tavoli sparpagliati per il locale in modo apparentemente casuale, c’erano diversi avventori riuniti in piccoli gruppi e assorti nelle loro conversazioni. Scelsi un posto appartato e ordinai un passato di verdure. La minestra era calda e saporita e mi sentii un po’ rinvigorire, ma dopo poche cucchiaiate dovetti fermarmi. Avevo un groppo in gola e il corpo percorso da tremiti. Stavo per crollare.
La voce della locandiera, che riordinava un tavolo accanto al mio, mi aiutò a riprendere il controllo. Feci due grossi respiri e cercai di concentrarmi sulla sua voce.
«Hai proprio ragione», disse ad alta voce. Parlava con dei signori seduti a un tavolo vicino, «il principe è il nostro faro. La nostra speranza è che salga presto al trono al posto di sua madre», concluse.
«Mi parli di lui», chiesi intromettendomi. La donna alzò per un secondo il viso verso di me.
«Del principe?», domandò.
«Si», risposi.
«Beh», cominciò lei, «Se non lo conosci almeno per fama non devi certo essere di qui», disse impilando dei bicchieri. «Quando c’è stata la guerra tra il regno del nord e il nostro e abbiamo perso la nostra dinastia reale non è stato facile. Il nostro re anche se non era perfetto, così egocentrico e geloso, era però giusto e buono con il popolo. I cittadini stavano bene, eravamo felici e la città prosperava. Poi però è morto, lui e il re del nord si sono uccisi a vicenda. La nostra regina è sparita. Probabilmente morta anche lei. Una vera disgrazia perché a quei tempi era incinta dell’erede al trono. I due regni sono stati uniti e a noi hanno imposto l’egemonia della casata del nord. Per i primi tempi anche se la popolazione era contraria alla nuova reggenza, la sovrana si è comportata in modo retto ed esemplare. Ma poi ahimè le cose sono cambiate. Ha introdotto con la forza nuove leggi e tasse che stanno affamando il popolo e, lo avrai percepito, c’è qualcosa di sbagliato, di malevolo che sembra ricoprire ogni cosa, non so cosa sia ma…»
«Io sapevo che la regina era manipolata da qualcuno», dissi ricordando le parole di Deam quella sera davanti al camino.
«Manipolata? Non so cosa vuoi dire…»
«E il principe, cosa mi dice di lui», la interruppi cercando di riportarla sul discorso originario.
«Il principe si è subito rivelato una pietra preziosa. Più cresceva e più il suo gran cuore si palesava a tutti. Non c’è persona che non lo ami e lo stimi nel regno. Si è messo dalla parte del popolo e dei più deboli. Più volte ha scacciato le guardie in cerca della riscossione dei tributi dai villaggi più poveri. Si occupa di tenere in piedi il sanatorio e spesso vi presta lui stesso assistenza ai malati. L’ho visto con i miei occhi aiutare a ricostruire la casa di una famiglia di poveri contadini che era crollata dopo un temporale. Dove c’è bisogno di aiuto lui non si tira mai indietro, ma non so perché non si è mai opposto apertamente a sua madre», concluse sollevando un vassoio ricolmo di stoviglie e indirizzandosi verso la cucina assorta nei suoi pensieri.
Se come diceva Deam, la regina in verità era controllata da qualcuno che metteva a rischio la sua vita, era facile capire perché il principe non si fosse ribellato. Era anche lei una vittima e lui pensava di riuscire in qualche modo a salvarla. D'altronde era sua madre e lui doveva sicuramente amarla, non avrebbe mai messo in pericolo la sua vita. La situazione non era certo delle migliori, ma se davvero quel ragazzo era così speciale, ero sicura avrebbe trovato prima o poi il modo di sistemare le cose.
Sentir parlare così bene di lui mi aveva sollevata. Anche crescendo era rimasto il bambino altruista e generoso che mi aveva salvata. Non stavo andando a morire per la paura della vendetta della regina, che si sarebbe abbattuta su di me e sulla mia cara balia, nel caso non lo avessi fatto. Stavo andando per lui. Per ripagarlo del suo incredibile dono. Per la sua fiducia. Per il suo cuore gentile. Perché era la cosa giusta. Non avevo mai preso in considerazione l’idea di non presentarmi al castello. Tenermi il cuore e lasciare morire lui al posto mio. Non era mai stata un’opzione. E ora che avevo perso Deam, rinunciare alla vita diventava ancora più semplice. Lasciai una manciata di monete sul tavolo per pagare la zuppa che alla fine non avevo mangiato e tornai all’ostello.
Ancora due giorni e sarebbe stato il mio compleanno.

Passai il giorno seguente a girovagare per la città. Il castello si trovava nel centro, su una collinetta dalla quale dominava sull’abitato. Una struttura imponente, ma elegante, che un tempo doveva essere stato un vero vanto per mio padre e i suoi antenati. Era strano pensare che se le cose fossero andate diversamente avrei abitato là con i miei genitori o forse chissà, probabilmente non avrei vissuto affatto. Niente mago, niente principe, niente magia, niente diciassette anni a disposizione.
All’imbrunire non avevo ancora voglia di rientrare all’ostello, così arrivai fino al fiume che tagliava di netto la città in due parti. Per le strade non c’era anima viva, l’unico rumore era quello del lento sciabordio dell’acqua. Mi appoggiai con le braccia al parapetto a osservare il movimento del liquido che pareva un mantello di seta nero agitato del vento e mi persi nei miei pensieri. D’un tratto la quiete fu rotta dallo scalpiccio degli zoccoli di un cavallo che risaliva la strada sulla riva opposta. Non potevo ancora vederlo perché un ponte, una decina di metri alla mia destra, mi impediva la visuale. Quando l’ebbe superato vidi un grosso stallone dal manto lucido e nero, ma la mia attenzione fu subito attirata dal giovane che camminava al suo fianco tenendolo per le briglie. Il cuore iniziò a battermi freneticamente nel petto.
«Deam, Deam», gridai sporgendomi dal parapetto. Lui si girò nella mia direzione. Sgranando gli occhi mollò le redini e si appoggiò alla balaustra.
«Aili… Aili!», gridò iniziando a correre in direzione del ponte. Io feci lo stesso senza riuscire a staccare gli occhi da lui, timorosa che se solo avessi sbattuto le palpebre sarebbe potuto sparire. Ci incontrammo nel centro del ponte e senza rallentare ci lanciammo l’uno tra le braccia dell’altra. L’impatto fu quasi doloroso, ma non mi importava, dovevo toccarlo subito, sentire che era reale, vivo. Anche un secondo di attesa in più mi sarebbe stato insopportabile. Mi strinse così forte che faticavo a respirare, ma sarei potuta restare così per sempre. Poi lui si staccò e premette con forza le sue labbra sulle mie. Quando ci separammo tutti e due ansanti, cercai di calmare il cuore che rischiava di scoppiarmi nel petto.
«Sei qui, sei viva. Ti ho cercata senza sosta nel bosco», disse.
«Mi dispiace, ti ho cercato lungo il corso del fiume, ma tu non c’eri e non sapevo cosa fare. Pensavo fossi annegato», quasi strillai quelle ultime parole mentre scoppiavo in lacrime.
Lui mi strinse fra le braccia cullandomi, cercando di calmarmi, mormorando che andava tutto bene. Pian piano ripresi il controllo.
«Come ti sei salvato?», chiesi.
«La corrente mi ha trascinato per più di un chilometro a valle, finché non sono riuscito ad aggrapparmi alle radici di un albero mezzo riverso nell’acqua e a issarmi sulla riva. Una volta sulla terra ferma mi sono portato verso gli alberi e lì credo di essere svenuto perché ero un po’ ammaccato e mezzo affogato. Quando mi sono ripreso era ancora buio, ho risalito il fiume per cercarti. Ti ho cercata ovunque ma… Alla fine oggi sono tornato in città… Pensavo di averti persa».
Gli alberi, la vegetazione e la notte dovevano avermi celato il suo corpo mentre passavo sulla riva opposta.
«Sei rimasto nel bosco fino a oggi?», domandai sconvolta, «ma come e i lupi?».
«No, no, poco fuori dal bosco c’è una vecchia roccaforte delle milizie usata dai cavalieri come base di appoggio nei loro spostamenti, ce ne sono diverse disseminate nel regno. Per sicurezza non è facile da scorgere perché è nascosta dagli alberi, ma conoscendone l’ubicazione… Ho passato lì le notti seguenti, mi hanno aiutato nelle ricerche, dato vestiti puliti e questo bel destriero che oggi mi ha riaccompagnato a casa», disse indicando con un accenno della testa e un sorriso caloroso, il cavallo che si era avvicinato a noi senza che me ne accorgessi. Passai le braccia intorno alla vita di Deam e affondai il viso nel suo petto. Lui intrecciò le mani dietro la mia schiena. Rimasi così, ad assaporare il suo calore, il piacere della sua presenza, ad ascoltare il suo cuore che batteva. Era vivo, era vivo!
«Sei alloggiata da tua cugina?», chiese.
«Che? Quale cugina? », domandai, scostandomi per guardarlo in faccia.
«Ehm, quella che si sposa», disse lui alzando le sopracciglia.
Oh cavoli mi ero completamente dimenticata della balla che gli avevo raccontato. Cercai subito di rimediare alla gaffe.
«Si, beh, no…», stavo peggiorando la situazione, «volevo dire, sto dai miei zii… Che appunto sono i genitori di mia cugina», un disastro su tutta la linea. Lui non parve per niente convinto, ma fortunatamente non volle indagare oltre.
«Domani ti posso vedere? Ti prego dedica la giornata a me», disse lui stringendomi forte a se. Sentii una nota di disperazione nella sua voce che mi allarmò, ma quando mi scostai per guardarlo in faccia mi sorrise con quel suo mezzo sorrisetto storto e furbo.
Domani. Domani sarebbe stato il mio compleanno. Sarei salita al castello e avrei dato il mio addio per sempre a questo mondo. Dopo questa sera non lo avrei più rivisto.
«Certo, ma nel pomeriggio. Verso le quattro su questo stesso ponte», dissi. Almeno così non mi avrebbe aspettato invano troppo a lungo. Non sembrò molto contento, ma annuì con la testa. Poi ci separammo, tenendoci però ancora per mano. Gli sorrisi di cuore.
«Sono contenta di averti incontrato. Hai reso la mia vita perfetta. Ora non ho nessun rimpianto. Grazie Deam». A pochi giorni dalla fine della mia vita, mi aveva fatto conoscere l’amore più forte e travolgente che avessi mai potuto sperare. Mi guardò un po’ perplesso corrugando la fronte, ma poi disse:
«A domani?»
«A domani», riposi io e ci lasciammo le mani.
Ci incamminammo in direzioni opposte continuando a girarci l’uno verso l’altra. Cercai di imprimermi nella mente ogni dettaglio di lui. I suoi capelli, le sue spalle, la sua camminata. Poi lui alzò una mano per salutarmi e girato l’angolo insieme al suo cavallo sparì alla mia vista.

La mattina del giorno dopo non venni svegliata da urla di panico, nessun pianto disperato da fine dei tempi. Il mondo non stava finendo. Terminava solo il mio. Per tutti gli altri era un giorno qualunque.
Mi alzai. Mi lavai il viso. Mi vestii. Feci due piccole treccine con i capelli ai lati della testa, poi le fissai insieme dietro al capo, come una piccola coroncina, in modo che tenessero fermi anche gli altri che invece lasciai liberi sulla schiena. Scesi a pagare l’oste per la camera, lo ringraziai dell’ospitalità e uscii in strada. Nel tragitto verso il castello sentivo ogni sensazione amplificata. Il sole che mi accarezzava la pelle, il vento che mi sollevava i capelli. I ciottoli della pavimentazione sotto le mie scarpe. Ogni odore. Ogni suono. Mi sarei dovuta sentire spaventata, ma non era così. Quando pensavo che Deam fosse morto, la disperazione mi aveva illusa che questo mi avrebbe fatto lasciare più facilmente questa vita, ma mi sbagliavo. Ora proprio il saperlo vivo mi stava dando la forza per accettare il mio destino. Mi domandai cosa avrebbe pensato quando non mi fossi presentata all’appuntamento. Che avevo avuto un contrattempo? Che mi era successa una disgrazia? Che non lo amavo? Qualunque cosa fosse, il tempo avrebbe rimediato cancellando ogni ferita, o quanto meno attenuandola. Se non si fosse fatto uccidere da dei briganti, mangiare dai lupi, affogare dalle rapide, o accoppare da qualsiasi altro guaio in cui si riusciva a cacciare, il tempo non gli sarebbe mancato.
Arrivata al cancello del palazzo due sentinelle mi si fecero dappresso. Dissi che dovevo vedere il principe e che pensavo di essere attesa. Non sbagliavo, perché le guardie aprirono subito il cancello e, scortandomi, mi introdussero all’interno del palazzo per una porta secondaria. Passammo diversi corridoi e diverse stanze, finché giungemmo in un grande salone dove mi lasciarono dicendomi di aspettare. Su un lato della sala si aprivano enormi finestre ornate da vistosi drappeggi dorati. Cassettoni intagliati, scaffalature lavorate, divanetti imbottiti componevano il mobilio della stanza. Due pareti erano completamente rivestite di quadri: scene di guerra, di caccia e alcuni ritratti. Uno in particolare attirò la mia attenzione, perché la modella sarei potuta essere io da quanto mi somigliava. Doveva essere mia madre. Ad un tratto una porta si spalancò ed entrò un vecchio alto e magro, che subito la richiuse dietro di se. Il suo aspetto senile era in netto contrasto con la sua prestanza fisica, si muoveva con la disinvoltura e l’agilità di un uomo molto più giovane. I suoi occhi iniziarono subito a scrutarmi e, sebbene la sua bocca si aprì in un largo sorriso, quelli rimasero freddi come il ghiaccio.
«Mia cara, perché non ci siano fraintendimenti puoi dirmi la motivazione della tua visita?», esordì.
«Diciassette anni fa il principe mi ha fatto un dono, sono qui per restituirglielo», spiegai.
L’uomo si passò la lingua sulle labbra, iniziando a mordicchiarsi poi quello inferiore.
«E’ così dunque. Perché sia chiaro, fui io a compiere il sortilegio quella notte, per cui so di cosa stiamo parlando», affermò.
Era lui allora il mago che aveva compiuto la magia che mi aveva riportata alla vita.
«E’ davvero onorevole da parte tua essere qui oggi, sei una ragazza dall’animo nobile e molto coraggiosa», disse.
Le sue parole erano di lode, ma l’espressione del suo viso, mentre parlava, raccontava tutta un’altra storia. Sembrava provare un forte disgusto e dissenso, non capii il perché.
«Il principe in questo momento non c’è, rientrerà stasera. Per cui mi duole dirtelo ma ahimè dovrai attendere in questa stanza per tutta la giornata. Spero non ti annoierai troppo. Io ho altri impegni inderogabili. Mi dispiace, ma a tenerti compagnia ci saranno solo i ritratti dei vecchi re e regine». Fece scorrere gli occhi sulle pareti indicandomi i dipinti con un cenno del braccio, bloccandosi d’un tratto di colpo con l’arto a mezz’aria. Tornò a posare gli occhi su di me. Poi di nuovo sulla parete, sul ritratto di mia madre.
«Bizzarro», disse tornando a guardarmi, «una somiglianza incredibile. Possibile…».
Potevo quasi sentire il rumore delle rotelle nel suo cervello che lavoravano. Potevo anche dirglielo ormai non aveva molta importanza.
«Si, era mia madre, l’ultima regina del regno del sud».
Il mago si illuminò di colpo e scoppiò a ridere.
«La feci cercare ovunque sapendola pure incinta dell’erede al trono e invece l’avevo avuta sotto il naso per tutto il tempo», sembrava trovare la cosa molto divertente. Quando si ricompose chiese:
«E dimmi mia cara, dov’è ora tua madre?».
«E’ morta un anno dopo la mia nascita», risposi.
Pareva sodisfatto della risposta perché prese ad annuire con la testa.
«Molto bene mia cara, ora ti devo lasciare. Manderò qualcuno a portarti qualcosa da mangiare. Ci rivedremo più tardi».
Lo ringraziai. Lui si avviò verso la porticina dalla quale ero arrivata e controllò che fosse chiusa a chiave. Poi uscì dal portone principale e una volta ch’ebbe richiuso l’uscio dietro di se, sentii la chiave girare nella toppa. Mi aveva chiusa dentro la stanza. Forse aveva paura che ci ripensassi e provassi a scappare.
Strano, pensavo avrebbero celebrato il rito magico subito al mio arrivo. Che si sarebbero tolti subito il pensiero. Invece il principe nemmeno c’era. Se la prendevano davvero comoda.
Scelsi un libro da uno scaffale, poi mi sedetti su un divanetto adiacente una finestra e mi misi a sfogliare distrattamente le pagine. Sarebbe stata una lunga giornata.
Circa due ore dopo sentii il portone riaprirsi. Entrò un domestico con un grande vassoio in mano. Senza guardarmi fece un inchino, poggiò il vassoio su un tavolino davanti a me e se ne andò richiudendo la porta a chiave. Tolsi il coperchio e scoprii un piatto pieno di verdure fresche, frutta colorata, un morbido panino di semi e una brocca d’acqua. Tutti cibi freschi e ricchi di energia. Non avevo molta fame, ma una volta incominciato a mangiare spazzolai via tutte le pietanze.
Il pomeriggio iniziò all’insegna della noia, tanto che incredibilmente a un certo punto mi addormentai sui morbidi cuscini. Quando mi svegliai il cielo stava già per imbrunire. Il vassoio era stato portato via e nella stanza ero ancora sola. Iniziavo a sentirmi agitata e impaziente. Forse il mio corpo e la mente mi avevano fatta addormentare proprio per proteggermi dalla paura che poteva assalirmi.
L’orario in cui mi sarei dovuta incontrare con Deam sul ponte doveva essere passato da parecchio. Ormai doveva essersene già andato. Mi si strinse il cuore. Ero contenta di aver dormito per buona parte del pomeriggio, se fossi stata sveglia mi sarei torturata inutilmente per tutto il tempo. Pensando a Deam un forte dolore al petto mi fece piegare in due. Strizzai forte gli occhi e spalancai la bocca senza riuscire a trovare ossigeno. Poi pian piano l’aria riiniziò a fluire nei polmoni. Riuscii a calmarmi e la stretta al petto si allentò. Dovevano sbrigarsi, la magia doveva essere fatta al più presto o rischiavo di crollare emotivamente.
Invece passarono altre ore senza che succedesse niente. Il cielo ormai era un firmamento di stelle e avevo acceso un lume per riuscire a vedere qualcosa nella stanza buia. La mia ansia stava raggiungendo livelli quasi incontrollabili.
Poi finalmente sentii la porta che veniva sbloccata, ma invece del mago e del principe entrò il servitore con un altro vassoio. Gli andai in contro pronta a tempestarlo di domande. Gli chiesi dove fossero il principe, il mago e la regina. Ma il maggiordomo sembrava molto spaventato e senza mai guardarmi, si scusò dicendo di non essere autorizzato a parlare con me. Io adirata lo afferrai per una manica per costringerlo a guardarmi in faccia e dirmi quello che volevo sapere, ma lui si scostò bruscamente e scappò via di corsa. C’era qualcosa che non andava. Stava succedendo qualcosa, ma potevo scoprire di cosa si trattava, perché questa volta il cameriere si era dimenticato di chiudere la porta a chiave. Potevo uscire.
Afferrai la maniglia, schiusi l’uscio e uscii. Mi trovai in un lungo e ampio corridoio con il soffitto a volta affrescato di scene sacre. Non c’era anima viva, anche del maggiordomo non c’era già più traccia. Tutte le porte che davano sulla galleria erano chiuse, tranne l’ultima sulla destra, che era solo accostata e da dentro filtrava una flebile luce. Mi incamminai nella sua direzione cercando di non fare rumore. Una volta davanti alla porta l’aprii leggermente con una mano, sperando non cigolasse. Era un ampio studio con una grande finestra dalla quale entrava il bagliore della luna. Un piccolo lume posato sopra un tavolino nel centro della stanza aiutava a spezzare l’oscurità. Un ragazzo stava seduto davanti alla finestra su una ottomana di raso rosso, con la schiena curva e la testa tra le mani. Si raddrizzò appoggiando le spalle al muro e lasciando ricadere le mani in grembo. Con il viso stava rivolto verso la luce della luna, lo sguardo triste perso al di là del vetro. Non avevo avuto bisogno di vedere il suo profilo, la morbida curva delle sue labbra o i suoi occhi sinceri per riconoscerlo. L’avevo riconosciuto subito e un velo si era come dissolto, lasciando che ogni parola detta o solo accennata si collegasse l’una all’altra, prendendo forma e significato. Ora capivo il suo turbamento. Perché conoscesse fatti che altri ignoravano. Perché i cavalieri erano stati così solerti ad aiutarlo nelle ricerche, dandogli poi vestiti e un cavallo per rientrare in città. Perché sembrava voler tenere i sentimenti lontano.
Deam era il principe. Era suo il cuore che avevo nel petto.
D’un tratto si accorse di essere osservato.
«Chi c’è?», disse voltandosi nella mia direzione e alzandosi in piedi. «A... Aili! Cos… cosa…?».
Vidi il suo viso passare dal disorientamento alla comprensione mentre me ne stavo in piedi sull’uscio a guardarlo.
«No», disse lui scuotendo la testa con l’espressione più triste e disarmata che avevo mai visto. Si portò le mani al viso, quasi che potessero così tenere lontano quella triste verità. Mi accorsi solo in quel momento che stavo piangendo, perché sentii le gocce che cadendo mi bagnavano il vestito sul petto. Cosa ci poteva essere da dire. Cosa potevamo mai dirci.
Ad un tratto mi sentii afferrare per una spalla.
«Mia cara, vedo che non hai seguito le mie istruzioni», era il vecchio mago, «hai anche trovato il nostro amato principe», disse. Il suo tono era gentile, ma il suo viso tradiva una rabbia furibonda e la sua mano nodosa sulla mia spalla strinse talmente forte da farmi male. «Allora passiamo alle presentazioni». Continuò spingendomi dentro la stanza, «mia cara ragazza lui è il principe Deam. Principe, lei come mi pare hai già compreso, è la ragazza a cui hai fatto dono del tuo cuore diciassette anni fa, nonché figlia dei sovrani del sud e legittima erede al trono», concluse.
Deam mi guardò sconvolto. Sapevo a cosa stava pensando: i nostri padri si erano uccisi a vicenda. La sua famiglia mi aveva costretta all’esilio usurpandomi il trono. Non poteva sapere che non gliene facevo certo una colpa e che ero lì di mia spontanea volontà, non per paura, ma per onorare la sua persona.
Mi staccai dal mago che ancora mi teneva per la spalla e correndo andai da lui che pareva sul punto di accasciarsi per terra e lo afferrai per le braccia.
«Deam, mi dispiace, mi dispiace, io non lo sapevo che tu fossi il principe. Mi dispiace di averti mentito, ma oggi sono qui per te, solo per te, per onorare il nostro patto. Dimentica le nostre discendenze a me non importa di quello che hanno fatto i nostri genitori o di chi sarei dovuta essere, mi importa solo di te. Sono qui di mia volontà. Non avevo rimpianti prima a lasciare la vita per il principe e ora che so che sei tu è ancora più semplice perché…», “perché ti amo” stavo per dire, ma mi fermai in tempo, temevo che questo invece di facilitargli le cose le avrebbe solo complicate.
Deam mi guardava sperso, disperato, sembrava non avesse capito una sola parola di quello che avevo detto. Non sapevo come aiutarlo a riprendersi.
«Interessante», disse il mago, mi girai verso di lui sempre sorreggendo Deam. «Vi conoscevate già. Beh poco male, non cambia niente», disse chiudendo la porta. «Dopo aver scoperto chi davvero fosse la nostra bella signorina qui, ho riflettuto tutto il giorno su cosa fosse meglio fare. Meglio per me si intende. Quando feci l’incantesimo non credevo certo che quella bambina in futuro si sarebbe veramente presentata a palazzo diciassette anni dopo. Andiamo chi rinuncerebbe mai a vivere per qualcun altro, neanche se questo comportasse la morte proprio della persona a cui si deve la vita. Gli esseri umani sono egocentrici ed egoisti. Ma poi oggi, per scaramanzia, ho detto comunque alle guardie che se si fosse presentata una giovane al castello e avesse chiesto del principe, avrebbero dovuto condurla nelle mie stanze. E tu sei venuta davvero. Pensavo di tenerti semplicemente rinchiusa finché il giorno non fosse passato, il nostro principe morto e poi di lasciarti andare…», cosa? Cosa stava dicendo? «… ma poi scoperta la tua identità le cose si sono complicate. Ora chiaramente non ti posso più lasciare libera, la tua persona è una minaccia per i miei piani».
Sentii Deam che si irrigidiva al mio fianco e mi afferrava per la vita, mi voltai a guardarlo. Ora aveva lo sguardo vigile e collerico. Le parole del mago erano riuscite a scuoterlo e a farlo tornare in se. Io avevo iniziato solo ora a capire la situazione. Doveva essere lo stregone la persona di cui mi aveva parlato Deam che controllava la mente della regina e teneva la sua vita tra le mani.
Il mago continuò a parlare:
«Così, visto che con la mia magia non posso né uccidere né incantare il principe finché il suo cuore non torna integro al completo dentro di lui, credo che adesso porterò a termine il sortilegio che ha avuto inizio diciassette anni fa e questo mi libererà automaticamente anche della nostra bella principessa, che morirà appena avrò terminato il rito. Come si suol dire due piccioni con una fava», concluse sghignazzando.
Deam mi spostò dietro di lui.
«Non te lo permetterò», disse e afferrò un tagliacarte d’argento da un tavolo accanto. Il magò iniziò a ridere.
«E cosa vorresti fare? Uccidermi? Sai che con una magia ho legato la vita di tua madre alla mia, se tu mi uccidi anche lei muore. Allora cosa vuoi fare?». Deam si bloccò con la mano alzata che brandiva il tagliacarte. Subito il mago alzò il bastone, che un secondo dopo sprigionò un fascio di luce che colpì Deam sul petto, facendolo schiantare addosso a un tavolo e rovinare a terra di schiena. Un secondo dopo volute luminose uscirono dal pavimento a legargli i polsi e le caviglie, imprigionandolo a terra. Deam urlò di rabbia.
«Maledetto liberami», gridò.
Io corsi subito da lui e mi chinai a terra per cercare di liberarlo, ma appena feci per afferrare un laccio, quello emanò una scarica di energia che mi bruciò le mani.
«Veniamo a noi principessa», disse il mago pacato. Mi voltai verso di lui. «Secondo quell’orologio sulla parete mancano quindici minuti a mezzanotte. Ti presti volontariamente al rito, o vuoi lasciar morire il principe? In onore al tuo coraggio ti giuro che una volta compiuto il sortilegio non lo ucciderò, mi limiterò a tenerlo sotto il mio controllo, come con sua madre, ma almeno avrà salva la vita. A te la scelta».
«No, Aili non ascoltarlo, non dargli retta», gridò Deam divincolandosi. Io continuavo a guardare il mago. «Aili, Aili, no, ti prego».
Si dice che finché c’è vita c’è speranza. Ero sicura che sotto qualunque condizionamento sarebbe stato posto, prima o poi Deam sarebbe riuscito a liberarsi e tornare padrone di se stesso. Non lo avrei lasciato morire. Mi alzai in piedi e mi diressi verso il mago, mentre Deam mi pregava di fermarmi.
«Lo lascerà vivere, è una promessa», chiesi rivolta allo stregone.
«Hai la mia parola», rispose lui.
Mi girai verso Deam.
«Il popolo ha bisogno di te. Riuscirai a liberarti, ne sono sicura», lui mi guardava angosciato.
Tornai a guardare il mago e feci un cenno di assenso con la testa. Allora lui alzò il bastone e lo ricalò con forza sul pavimento. Una spira luminosa fuoriuscì dalla base e serpeggiando nell’aria mi entrò nel petto. Fu come ricevere una scarica elettrica. La sentii attorcigliarsi dentro di me e avvinghiarsi al cuore, stringendolo in una morsa. Sentii le forze che mi abbandonavano. Poi la stretta scomparve e un lampo accecante mi fuoriuscì violentemente dal petto dirigendosi verso il mago. Poi mi accasciai senza sensi sul pavimento.
Galleggiavo in un mare di oscurità. Nessun tunnel di luce per me. Nessuna sensazione di pace a confortarmi per la mia morte. Che fregatura, o tutti i racconti delle esperienze di premorte erano fasulli o per me non valevano. E adesso che dovevo fare se nessuno mi veniva a prendere? Aspettare in quel buio per il resto dell’eternità? C’erano dei rumori lontani in sottofondo. Uno era un attutito palpitio, l’altro sembrava una voce, ma non riuscivo ad afferrare le parole. Cercai di concentrarmi. Il battito ora pareva più forte, sembrava quello di un cuore, del mio cuore, ma se ancora mi batteva nel petto, forse allora non ero morta. Provai a mettere a fuoco la voce che sentivo, adesso la riconoscevo era Deam. Il mio Deam. Sembrava disperato. Avrei voluto consolarlo, ma non riuscivo a trovare le labbra per parlargli, né le mani per accarezzarlo. Poi le parole si fecero più chiare, ora potevo sentirlo perfettamente. Gridava il mio nome.
«Aili, Aili, ti prego, ti scongiuro, ti supplico torna da me. Io ti amo, ti amo, non mi lasciare», singhiozzava.
Finalmente riuscii a ritrovare il mio corpo e ad aprire gli occhi. Deam piangendo mi cullava tenendomi tra le braccia, con il viso appoggiato al mio. Sollevai un braccio e gli accarezzai una guancia, lui sollevò di scatto il capo guardandomi in volto con gli occhi arrossati. Gli sorrisi e alzandomi con il busto lo abbracciai. Lui mi strinse forte, affondando il viso tra i miei capelli.
«Sei viva, sei viva», sussurrò.
Ero viva, il sortilegio non aveva funzionato. Mi scostai da lui.
«Dov’è andato il mago?», chiesi, presa dal panico.
«E’ scappato. Qualcosa nel rito è andato storto e gli si è rivoltato contro mandando il suo bastone in mille pezzi. In quel momento anche le spire che mi tenevano imprigionato al pavimento si sono dissolte», rispose.
Guardai l’orologio, mancavano cinque minuti alla mezzanotte. Non sapevo cosa fosse andato storto nel sortilegio e perché, ma se il cuore di Deam batteva ancora dentro il mio petto significava che la sua vita era ancora in pericolo e che ci restava poco tempo.
«Dobbiamo trovarlo», gridai lanciandomi in piedi e fiondandomi verso la porta aperta. Corsi per il corridoio verso le sue stanze private, dove mi aveva tenuta rinchiusa per tutta la giornata. Sentivo Deam correre dietro di me. La porta era spalancata e io entrai nel salone senza esitare. Il mago stava chino, piegato sopra un sofà. Ansimava rumorosamente. Quando sentì i nostri passi si girò verso di noi e io trattenni a stento un urlo. Il suo viso sembrava invecchiare a vista d’occhi. La sua pelle fremeva e si decomponeva sopra le ossa appuntite del viso e delle mani. Aveva i denti scoperti in un ringhio di rabbia e i suoi occhi ardevano di furore.
«Che siate dannati, mi avete ingannato, avevate già rotto il sortilegio», gridò furibondo.
Non capivo cosa stesse dicendo.
«Avrei dovuto uccidervi quando ne avevo la possibilità, come feci con i vostri padri», disse, «sì, sorpresa li ho uccisi io quei due sciocchi», fu colto da un accesso di tosse. Quando si riprese sputò a terra e continuò a parlare:
«Come facevate a sapere che interferire su un incantesimo infranto mi si sarebbe ritorto contro, privandomi della mia magia? Come?», urlò, cercando di rimettersi in piedi. Poi iniziò a ridere. «Amore. Dovevo capirlo dal modo in cui vi proteggevate a vicenda». Iniziò a vacillare nella nostra direzione. «Ma prima di andarmene porterò almeno uno di voi con me nella tomba» e ritrovando stabilità, fece uno scatto verso di noi. Deam mi si parò davanti, frapponendosi tra me e il mago. Questi gli si avventò contro prendendolo per il collo con le mani. Caddero a terra. Deam cercò di scrollarsi di dosso lo stregone. Riuscì a fargli mollare la presa sulla sua gola e con un calciò lo spedì a terra lontano da lui. Il vecchio si rialzò, ma prima che potesse fare alcunché il suo corpo iniziò a disgregarsi in polvere. Fece solo in tempo a mettere tutta la sua collera in un ultimo grido furibondo, prima di diventare un mucchio di cenere sul pavimento.
Mi inginocchiai accanto a Deam, che era ancora seduto sul pavimento, per vedere se stesse bene, quando una pendola nella stanza iniziò a scoccare i dodici rintocchi della mezzanotte. Ci guardammo negli occhi. Deam parve spaventato, ma forse avevo capito cos’era accaduto. Presi il suo viso tra le mani e posai le mie labbra sulle sue.
«Andrà tutto bene, non avere paura», gli dissi quando ci staccammo. «Ti amo. Il mio cuore è già tuo, te l’ho già restituito», dissi.
«E il mio io l’ho ridato a te», disse lui. Iniziava a capire. Poggiai un palmo sul suo petto. Con la mano libera presi una delle sue e la appoggiai al mio.
«Riesci a sentirlo?», domandai. Due cuori che in verità erano diventati uno solo. Due vite che palpitavano all’unisono. Lo stesso battito vitale in due corpi separati.
Ci baciammo.
La pendola scoccò l’ultimo rintocco, poi tacque. Io e Deam ci separammo guardandoci negli occhi. Il nostro amore ci aveva salvati e uniti per sempre.
Dal corridoio sentimmo arrivare delle grida, qualcuno chiamava il suo nome. Una donna apparve trafelata sulla porta.
«Mamma», disse Deam alzandosi e correndo nella sua direzione. I due si abbracciarono. Io mi rialzai e restai a guardarli. Il potere del mago si era spezzato, anche la regina era libera dal suo controllo mentale e la sua vita salva. Chissà da quanto tempo Deam aspettava questo momento. Dopo che si furono ritrovati per davvero, madre e figlio si girarono verso di me. Deam mi presentò alla regina. Lei all’inizio parve preoccupata, ma mano a mano che Deam le raccontava la storia che ci aveva condotti fino a lì, il suo viso si addolcì. Si separò dal figlio e venne da me.
«Grazie», disse. Una semplice parola che racchiudeva tutto l’amore di una madre per il suo unico figlio. Poi mi abbracciò.

Il giorno seguente la città sembrava completamente mutata nell’arco di una sola notte. La coltre che la ricopriva era sparita. Pareva aver ritrovato i suoi colori e piccoli germogli spuntavano in ogni dove. Dopo tanto tempo la natura stava cercando di riappropriarsi dello spazio che le spettava di diritto. Alberi che prima apparivano morti e secchi ora erano ricoperti di gemme. La vita stava tornando a fiorire. E per la prima volta nella mia vita, davanti a me si apriva un futuro in cui non avevo mai avuto il coraggio di sperare.
Il resto della notte precedente io e Deam l’avevamo passato insieme nella sua camera, sdraiati sul suo letto, tenendoci per mano, guardandoci negli occhi, senza parlare. Troppo sovreccitati dagli eventi delle ultime ore per riuscire a dormire. Nessuno dei due pensava che avrebbe visto l’alba del giorno dopo. Tutti e due convinti che quella appena passata, sarebbe stata la sua ultima giornata su questa terra. Invece eravamo ancora lì. Ed eravamo insieme. Alle prime luci la stanchezza ebbe la meglio e sprofondammo tutti e due in un sonno profondo.
I giorni seguenti furono di grande fermento sia per noi che per la popolazione. Le pesanti tasse e le ingiuste leggi imposte dal mago furono cancellate. E dopo che ne avemmo discusso tra noi, la regina annunciò ai cittadini che entro la fine del mese avrebbe abdicato in favore del figlio. I molti anni sotto il controllo del mago l’avevano logorata e ora voleva solo ritirarsi in tranquillità. All’inizio Deam e la sovrana erano titubanti, in quanto anch’io avevo pari diritti di salire al trono, ma Deam era stato cresciuto come un re, aveva una preparazione che a me mancava e la popolazione già lo amava. Così fui irremovibile sul fatto che il nuovo reggente dovesse essere lui.
La mia balia mi raggiunse pochi giorni dopo al castello, scortata da delle guardie. Con lei lì, mi sentii finalmente completa.
Avrei aiutato Deam a riportare i nostri regni al loro antico splendore. I nostri regni che erano stati uniti in uno solo, così come lo erano i nostri cuori.

Era passata una settima dal mio compleanno e dagli eventi che avevano cambiato inesorabilmente la mia vita e quella di tante altre persone. Me ne stavo sull’ampio terrazzo della mia camera, seduta sul parapetto, a gustarmi il vento che mi accarezzava la pelle e a rimirare il bagliore delle stelle e della luna, quando Deam entrò nella mia stanza e vedendomi, mi raggiunse sul balcone.
«Mia principessa», disse con un inchino e sfoderando il suo sorriso sghembo.
«Mio principe», risposi io ridendo.
In quegli ultimi giorni non avevamo avuto tempo per restare molto insieme da soli. C’era sempre qualcosa da fare, qualcuno con cui parlare. Fui contenta di questo momento di intimità solo per noi due. Si appoggiò alla balaustra con i gomiti, sfiorandomi con un braccio le gambe, lo sguardo rivolto verso il parco su cui si affacciava la mia stanza. Gli scostai i capelli dal viso e lui si girò a guardarmi. I suoi occhi seri e penetranti fissi nei miei.
«Sposami», disse cogliendomi di sorpresa. «Il giorno stesso dell’incoronazione», continuò, mettendosi dritto davanti a me. «Sali al trono insieme a me, come mia regina».
«Me lo stai chiedendo perché sei preoccupato che mi possa sentire messa da parte? Pensavo ne avessimo già discusso», dissi. Lui parve offendersi.
«Che dici, no. Ti voglio al mio fianco perché non posso pensare a una vita senza di te, perché non disidero niente se tu non sei con me. Perché ti amo. Sposami Aili. Forse volevi una richiesta formale in ginocchio?», disse alzando un sopracciglio e sorridendo.
Risi. «No, no, sei stato perfetto», gli dissi prendendolo per la vita, «Certo che ti sposo, il mio cuore è indissolubilmente tuo, oggi, domani, per sempre. Voglio solo te. Ti amo».
Lui mi baciò teneramente.
«Mia regina», mi sussurrò, senza smettere di baciarmi.
«Mio re», risposi io sorridendo.
Le stelle e la luna ci fecero da testimoni, suggellando il nostro patto di amore eterno.

FINE


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