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FIABE


Aili 2
Stella

SECONDA PARTE

Non ero abituata a vivere circondata da così tante persone e tutti erano fin troppo solerti nel cercare di aiutarmi in ogni minima attività, anche quelle più intime e personali. Una volta definiti i miei spazi con la servitù però, adattarmi alla vita di corte, fu più semplice di quanto avessi potuto sperare.
Mi fu assegnata una cameriera personale, una ragazza di nome Eica, di poco più giovane di Deam, con cui mi trovai subito in sintonia. Era stata la dama di servizio del mago e lavorava al castello sin da quando la casata del nord vi aveva posto la sua principale dimora. Senza bisogno che mi esprimessi a parole, aveva subito compreso il mio imbarazzo e le mie difficoltà nell’avere sempre qualcuno che facesse le cose al posto mio e vi si era adattata con discrezione. Le ero molto grata per questo.
Nei rari momenti di tempo libero mi piaceva vagare per il palazzo e per il parco, fantasticando, immaginando di vedere i miei genitori affacciati a una finestra o seduti su uno dei morbidi divani in raso. Anche dopo tutti questi anni, il castello era pregno della loro presenza. Nei loro svariati ritratti affissi alle pareti; negli appunti segnati a matita nei margini ingialliti di alcuni libri; negli eleganti centrini che, avevo scoperto, a mia madre piaceva ricamare. Era così strano essere circondata da tante cose che gli erano appartenute; attraverso loro, mi sembrava di imparare a conoscere un po’ quei genitori, che non avevo avuto la possibilità d’incontrare.
Mancava poco più di una settimana al matrimonio e all’incoronazione. Si sarebbero svolti nella basilica al centro della città, in un’unica funzione. Avevamo richiesto una celebrazione semplice, senza troppo sfarzo, ma la cittadinanza era in fermento e in ogni dove spuntavano addobbi e decorazioni. Potevo capire la loro gioia. La salita al trono del principe, rappresentava la fine di un periodo buio e apriva le porte a un nuovo inizio. Deam era come un sole che illuminava il loro futuro. Sapevo come si sentivano, perché Deam irradiava anche me.
Mi piaceva pensare però, che qualcuno di quei festoni colorati fosse stato appeso anche per festeggiare il mio ritorno.
Mi stavo recando in uno dei saloni dell’ala ovest. Vi erano stati portati alcuni doni provenienti dalle famiglie nobiliari del regno e mi era stato chiesto di scartarli e scrivere delle lettere di ringraziamento. Mentre percorrevo silenziosamente il lungo corridoio, con il mio abito che frusciava appena sfiorando il pavimento di marmo, sentii delle voci parlottare dietro una porta socchiusa. Rallentai il passo. L’uscio si spalancò di colpo e un ragazzo smilzo, dallo sguardo furente ne uscì di gran carriera, finendomi quasi addosso. Si bloccò dinanzi a me e quando i nostri occhi si incontrarono, assunse un’aria sgomenta. Distolse rapidamente lo sguardo, si profuse in un frettoloso inchino, mormorò delle scuse e si avviò poi velocemente lungo la galleria. Aveva un aspetto familiare, ma non riuscii a ricordare dove lo avessi già visto.
Un secondo dopo dalla stessa stanza uscì Eica. Indossava un abito color cachi. I capelli dorati erano raccolti in una lunga treccia e al collo portava una catenina, alla quale era appeso uno strano ciondolo simile a un lungo rametto di legno, che le vedevo sempre indosso. Non avevo ancora avuto il coraggio di chiedere cosa rappresentasse per lei quel bizzarro pendente. Temevo di essere troppo indiscreta.
«Principessa! Fate una passeggiata? Gradite compagnia?», chiese, scrutandomi in volto.
«Grazie, ma sto andando nella sala degli arazzi. Sono arrivati dei regali e devo scrivere dei ringraziamenti», risposi.
«Capisco. Allora vi vedrò più tardi. Con permesso», disse.
Sorridendomi fece una riverenza e si avviò nella direzione opposta alla mia.
I regali erano decisamente un po’ di più di quanto mi ero aspettata. Così mi misi subito all’opera. Iniziai a stracciare la carta che li avvolgeva, ad aprire le buste e a srotolare le pergamene. Mi sedetti poi alla scrivania in mogano. Estrassi dal cassetto centrale una pila di fogli, la posai sul tavolo alla mia sinistra, presi il primo e dopo aver intinto il pennino nel calamaio, iniziai a scrivere la prima lettera. Una volta terminata la sigillai con la ceralacca e vi impressi il sigillo della famiglia reale del nord. Avremmo dovuto farne creare uno nuovo. Uno che unisse gli stemmi di tutte e due le nostre famiglie. Al pensiero sorrisi tra me e me. Lo misi mentalmente tra le cose da fare.
Era già l’imbrunire quando Deam entrò nel salone cercandomi con gli occhi. Quando mi vide sorrise e io mi alzai per andargli in contro. Non era proprio nei dettami dell’etichetta di corte, ma io ero cresciuta in campagna, per cui al diavolo il galateo, gli gettai le braccia al collo. Lui strinse le sue intorno alla mia vita, sollevandomi da terra. Il profumo dei suoi capelli era inebriante. Quando i miei piedi toccarono di nuovo il pavimento, le sue labbra cercarono le mie e mi baciò dolcemente. Ero traboccante di felicità.
«Mi sei mancata», disse.
«Anche tu».
Lo guidai tenendolo per mano fino alla scrivania.
«Sto scrivendo i ringraziamenti per i regali, ma ho quasi finito, me ne mancano solo un paio», dissi indicando la lettera che avevo lasciato a metà. «Resti con me finché non ho finito?», domandai.
«Certo, per oggi sono libero. Sono tutto tuo», rispose, inarcando un angolo della bocca nel suo sorrisetto furbo.
Sentii le guance avvampare e per dissimulare, mi misi a sedere, afferrando il pennino e fingendomi indaffarata. Lui ridacchiò, sapeva come mettermi in imbarazzo e di sicuro lo faceva apposta per vedermi arrossire.
Deam prese a gironzolare per la stanza, osservando i doni per le nostre nozze e il cambio di reggenza e io cercai di concentrarmi per finire al più presto.
«Te ne è sfuggito uno», disse mentre si chinava per afferrare un piccolo pacchetto bitorzoluto di carta marrone legato con uno spago. Sciolse la cordicella e una volta liberato l’involucro dallo spaghetto, scartò la confezione.
«Cosa contiene?», domandai andando verso di lui.
«Non ne sono sicuro... sembrerebbe una piccola fede fatta in legno». La afferrò con le dita, sollevandola dalla carta. «Ah, maledizione è bollente!».
Deam lasciò andare subito la vera, che ruzzolò sul pavimento. Io mi accovacciai e la toccai incerta con la punta dell’indice. Era fredda. La presi in mano e mi rialzai in piedi.
«Strano, ora è fredda», dissi.
Mentre osservavamo l’anello, il suo colore cominciò a mutare, come se volute fiammeggianti si stessero espandendo, turbinando al suo interno, possedendolo fino a farlo diventare completamente rosso.
All’improvviso Deam fece un gemito e si portò le mani al petto piegandosi in due.
«A...Aili!», la voce gli uscì strozzata.
«Deam, cosa ti succede?», gridai spaventata.
Sembrava preda di un fortissimo dolore.
Deam cadde sulle ginocchia, ansante e un attimo dopo si accasciò a terra privo di sensi.
«Deam! Deam!», urlai inginocchiandomi accanto a lui e cercando di girarlo supino.
Avvicinai il mio viso alla sua bocca, per accertarmi che stesse respirando. Non avrei avuto bisogno di appoggiare la mano sul suo petto, per sentire se il cuore batteva. Il mio e il suo erano diventati una cosa sola. Se il mio ancora palpitava, voleva dire che lo stava facendo anche il suo.
Lo feci ugualmente e un rincuorante pulsare si trasmise al mio palmo, ma c’era qualcosa che non andava. Capii di cosa si trattava e mi sentii mancare quando il panico si impossessò di tutte le mie membra e un singhiozzo mi sfuggì dalle labbra.
I nostri cuori non battevano più in sincrono.
Lo afferrai per le spalle e lo scossi, cercando di svegliarlo senza successo. Sul suo viso non c’era più traccia di sofferenza, sembrava solo profondamente addormentato.


Ci trovavamo nella stanza di Deam. Non avrei voluto piangere, ma le lacrime uscivano da sole e non riuscivo a controllarmi. Io e la mia balia eravamo sedute su un sofà e lei mi circondava con un braccio le spalle, cercando di consolarmi, ma io non riuscivo a concentrarmi, non capivo una sola parola di quello che diceva. La regina era seduta sul letto del figlio e gli teneva la mano. Deam era immobile, disteso sul suo letto, privo di conoscenza da ormai tre ore.
Quando era svenuto nella sala degli arazzi, avevo impiegato un attimo per riprendermi dallo shock e correre a chiamare aiuto. Quattro domestici l’avevano alzato di peso e portato nella sua stanza, adagiandolo sul morbido materasso del letto a baldacchino.
Il legame magico che si era creato grazie al nostro amore si era infranto. La magia che ci aveva uniti, permettendoci di restare in vita entrambi, era svanita. Sentivo Deam scivolare via, lontano da me. Lo stavo perdendo. Avvertivo come qualcosa di tangibile, che la sua presenza dentro di me si stava affievolendo sempre di più ogni minuto che passava.
Improvvisamente fui consapevole del piccolo rigonfiamento nella taschina del mio corpetto. Vi infilai le dita ed estrassi l’anello. L’avevo infilato lì, senza quasi rendermene conto, prima di correre a cercare aiuto. Lo soppesai sulla mano, studiandolo con attenzione. Il colore rosso acceso ora sembrava più sbiadito, ma forse erano le lacrime a ingannarmi. Di una cosa ero sicura, Deam si era sentito male dopo averlo toccato, questa piccola fede doveva per forza averci qualcosa a che fare. Non potevo più aspettare senza fare niente. Mi asciugai gli occhi con le mani e mi alzai in piedi.
«Abbiamo bisogno di parlare con qualcuno che s’intende di magia», dissi decisa.
La regina si voltò a guardarmi e io le raccontai nel dettaglio quello che era successo nella sala degli arazzi, mostrandole la vera.
«Pensi possa trattarsi di qualche sortilegio?», domandò, sbiancando ulteriormente in volto.
«È possibile», risposi.
Lei tornò a guardare il figlio.
«Dopo la città di Amlbas, seguendo la via che porta alle montagne rocciose, sul terreno che un tempo apparteneva al regno del nord, a due giorni di viaggio da qui, abita una savia. Non è una maga, ma sa vedere la verità che si cela dietro alle cose. Se ancora vive lì e riuscirai a trovarla, ti aiuterà. Mio marito era solito recarsi da lei prima che...», si interruppe per un momento, «prima che il mago si insinuasse a corte», concluse.
«Partirò immediatamente», dissi.
Diedi ordini perché si sellassero tre cavalli e che due guardie si preparassero alla partenza.
La mia balia cercò di persuadermi ad aspettare che facesse giorno e dormissi qualche ora prima di avviarmi. Quando mi vide irremovibile si offrì di accompagnarmi, ma la convinsi a restare. Era una pessima cavallerizza e viaggiare in carrozza ci avrebbe rallentato.
Cercai degli abiti comodi e caldi per cavalcare e poco appariscenti per passare inosservata. Scelsi una giacca sciancrata lunga quasi fino alle ginocchia, una maglia a maniche lunghe, dei pantaloni, un paio di stivali e un mantello con cappuccio.
Eica mi aiutò a cambiarmi e quando glielo chiesi, mi procurò un piccolo sacchettino di stoffa, in cui riposi la fede. Una volta chiusa la bustina con un laccetto, la infilai nella tasca destra della giacca. Eica non poteva sapere di cosa si trattasse e anche se trovò la cosa bizzarra, non fece domande.
Appena pronta scesi nelle scuderie. I due cavalieri erano già lì ad aspettarmi. Due ragazzi sotto i trent’anni, uno biondo e uno bruno con gli occhi gonfi di sonno, dovevano averli tirati giù dal letto. Si presentarono. Quello con i capelli chiari e lunghi si chiamava Iane, quello con i capelli scuri e disordinati Rimet. Io li istruii secondo la nostra destinazione. Mi ero fatta spiegare nel dettaglio dalla regina come trovare la casa della savia. I due si limitarono ad annuire col capo, così, senza ulteriori indugi, saltammo in sella e partimmo nella notte al galoppo.


Lasciare Deam era stata una delle cose più difficili che avessi mai fatto. Per uscire dalla sua stanza e non restare al suo fianco, avevo dovuto chiamare a raccolta tutta la forza di volontà di cui disponevo; ma ora che ero in viaggio mi sentivo più determinata che mai .
Cavalcammo senza sosta per ore. All’alba il cielo completamente coperto dalle nubi, non lasciava passare che pochi raggi di sole, rendendo il paesaggio, anche di giorno, quasi privo di colore. Le condizioni del tempo continuarono a peggiorare, fino a sfociare in una pioggia fitta e insistente. Non ci fermammo. Quando la pianura cedette il posto alle colline, Iane, che mi precedeva, fece rallentare il cavallo e mi affiancò.
«Dobbiamo fare sosta. I cavalli sono stremati. Dovrebbe esserci una stazione per il cambio dei destrieri tra qualche chilometro», disse.
Non volevo fermarmi, ma aveva ragione.
«D’accordo», dissi.
Il cielo, sempre cupo, finalmente si acquietò e poco dopo avvistammo la stazione. Era una locanda di grandi dimensioni, costruita interamente in legno scuro, con una lunga scuderia che si allungava perpendicolarmente nella parte posteriore della costruzione. La porta d’ingresso, con la parte superiore in vetro satinato, si aprì cigolando su un ampio stanzone ingombro di tavoli. Nella parte opposta della stanza c’era un lungo bancone, con davanti alcuni sgabelli dall’aria poco robusta. Seduti a gruppetti nei vari tavoli, diversi altri viandanti, più di quanti mi sarei aspettata, facevano un gran baccano, gozzovigliando. Alzavano grandi boccali ricolmi di un liquido ambrato, calici di vino e caraffe d’acqua. Sui vassoi erano posate grosse fette di pane, sulle quali era spalmata una crema non ben definita dal colore grigiastro, patate al cartoccio e ciotoline di fagioli lessi. Il mio stomaco borbottò. Doveva essere ormai passata l’ora di pranzo, ma a discapito di quello che diceva il mio corpo, la preoccupazione non mi permetteva di avere appetito.
Ci portammo verso il bancone, dove un signore di mezza età ci venne in contro con un largo sorriso stampato sulla faccia. Iane mi guardò di soppiatto mentre ci avvicinavamo al banco, capii che voleva essere lui a trattare con l’oste. Io acconsenti con un lieve movimento del capo.
Si accordarono sul cambio dei cavalli e l’uomo mandò subito un garzone a prendere i destrieri, che avevamo lasciato legati sotto una tettoia fuori dall’ingresso, perché se ne occupasse. Dovevamo attendere una decina di minuti per avere pronti e sellati degli altri cavalli, così Iane chiese anche tre porzioni del piatto della casa e una caraffa d’acqua. Io lo bloccai, dicendo che non avevo fame, ma lui mi ignorò e fece l’ordinazione. Come futura regina pareva trasudassi ben poca autorità.
Togliemmo i mantelli bagnati e li appendemmo a un attaccapanni di ferro fissato alla parete. Ci sedemmo a un tavolo, io da una parte, i due cavalieri dall’altra. Le pietanze non tardarono ad arrivare. Erano le stesse che avevo visto servite agli altri clienti. Iane spinse un piatto nella mia direzione.
«Mia signora, vi prego mangiate, avete bisogno di energie», disse.
«Cavalcare così è fisicamente più estenuante di quanto possa sembrarvi in questo momento, abbiamo ancora un lungo viaggio davanti a noi, dovete tenervi in forze», aggiunse Rimet, appoggiandomi una forchetta davanti.
Gli ero grata per la loro premura, ma mi sentivo trattata come una bambina capricciosa. Non potevano sapere il motivo del mio scarso appetito. Non conoscevano nemmeno la ragione del viaggio che avevamo intrapreso. Gli era stato ordinato di accompagnarmi e di aver cura che non mi succedesse niente. Capivano solo che il tempo era un aspetto fondamentale e che non potevamo sprecarlo.
Mi sforzai di ingoiare qualche boccone per farli contenti, ma ogni forchettata mi faceva sentire colpevole. Colpevole di star bene. Colpevole di essere viva, mentre Deam...
Mi venne un violento conato di vomito e dovetti precipitarmi fuori dalla locanda. Mi portai sull’erba dalla parte opposta della strada e vomitai anche l’anima. Lì con gli stivali nell’erba bagnata e il vento che mi sferzava il viso, desiderai mettermi a piangere e gridare con tutto il fiato che avevo in gola.
Una mano mi sfiorò la spalla destra.
«Vi sentite bene?», chiese Iane.
‘No, per niente’, pensai.
«Si, ora mi riprendo», risposi invece, «ho bisogno solo di un momento».
Lui e Rimet mi guardavano con espressioni preoccupate. Dovevano essermi corsi dietro, quando ero scappata in tutta fretta fuori dal locale.
Inspirai a pieni polmoni ed espirai lentamente, cercando di riprendere il controllo. Non era il momento di lasciarsi andare. Deam era vivo e aveva bisogno del mio aiuto. Non lo avrei deluso.
Ritornammo all’interno della locanda. Chiesi all’oste dove potessi darmi una rinfrescata al viso e lui mi indicò una porta sulla destra del locale, vicino a quella che portava alle cucine.
«Sempre dritto, l’ultima porta in fondo», aggiunse.
Mi avviai, mentre Iane e Rimet tornavano a sedersi al tavolo, dopo che avevo rifiutato la loro proposta di accompagnarmi.
Dietro all’uscio c’era un lungo corridoio. Il legno delle pareti era dipinto di bianco e dove si incontrava con il pavimento era sporco e un po’ scrostato. Arrivai alla porta indicatami dal proprietario e l’aprii. Fui investita da una folata di aria fredda. Il corridoio si apriva all’esterno sul retro del locale, sotto un grande porticato. Alla mia sinistra c’era un lavabo in roccia con la pompa in ferro leggermente arrugginita. Più avanti una casetta alta e stretta, probabilmente la latrina, attirava l’attenzione per il suo aspetto sgangherato e pericolante. Accanto ad essa un grande cumulo di legna era accatastata in modo disordinato.
Mi portai davanti al lavello. Afferrai il maniglione per far scendere l’acqua e abbassai la leva. Il liquido trasparente si riversò fuori dal tubo. Lo presi tra le mani e mi sciacquai la faccia e la bocca.
Improvvisamente mi sentii afferrare da dietro e venni strattonata e scaraventata contro il muro. Sbattei la testa e per un momento rimasi intontita. Quando mi riebbi, una mano mi teneva premuto il capo contro il legno della parete, mentre l’avambraccio faceva pressione sulla schiena. Con l’altra mano l’assalitore cercava di aprire il bottone della tasca destra della mia giacca. La tasca dove tenevo il sacchetto con dentro l’anello.
«Resta ferma, strega», disse.
Gli mollai un calcio con il tacco sullo stinco e lui ebbe un momento di cedimento. Ne approfittai per sgusciare di lato. Feci in tempo a voltarmi, ma l’aggressore, che indossava un cappuccio che ne metteva in ombra il viso, mi afferrò per le spalle e capitolai sotto il suo peso, finendo a terra sul pavimento di cemento grezzo, con lui che mi sovrastava.
Cercai di spingerlo via con le mani, dimenandomi sotto di lui, ma era pesante e più forte di me. Mentre cercava di afferrarmi i polsi, il copricapo gli scivolò all’indietro mostrandomi il suo volto. Mi bloccai di colpo.
«Deam?», dissi sconvolta, sgranando gli occhi.
Lo guardai sbigottita a bocca aperta, cercando di dare un senso a quello che stavo vedendo, un senso a quello che stava accadendo.
Visto che io non mi dibattevo più, anche lui si era fermato e ora mi osservava, inginocchiato sopra di me con espressione interrogativa. Ci stavamo guardando negli occhi, ma non c’era segno di riconoscimento nei suoi. Erano duri e freddi. Era lo sguardo che riservava ai nemici. Mi sentii gelare.
«Deam... cosa?». Non sapevo cosa dire, erano troppo le domande che mi si agitavano in mente.
«Taci. Non mi interessano le tue bugie», disse con voce decisa.
Mi prese entrambi i polsi nella mano sinistra e con la destra riprese ad armeggiare con la chiusura della mia tasca.
Non sapevo cosa stesse succedendo, ma capii che dovevo proteggere la vera. Urlai con quanto fiato avevo in gola, sperando che Iane e Rimet mi sentissero. Evidentemente Deam non se l’era aspettato, perché per un attimo si bloccò interdetto. Riuscii a sganciare un polso dalla sua presa e gli tirai un pugno sul naso. Lui si portò entrambe le mani al volto con un gemito di dolore. Non mi lasciai scappare quell’occasione. Facendo leva con le braccia, riuscii a spostare il corpo all’indietro, liberando una gamba. L’alzai e calai violentemente lo stivale sul suo viso. Deam barcollò all’indietro, guardandomi per un attimo esterrefatto, finendo poi a terra svenuto accanto a me. In quell’istante la porta si aprì e ne uscirono Iane e Rimet con le spade sguainate.


Non sapevamo come Deam avesse fatto ad arrivare fin lì. Per cui prendemmo un quarto stallone su cui caricarlo, dopo avergli legato le mani dietro la schiena con una fune.
Iane e Rimet parevano terrorizzati. Dietro mio ordine, avevano legato e issato a cavallo, come fosse un sacco di paglia, il loro principe esanime. Il loro sovrano a cui dovevano dedizione e obbedienza. Lo stavano trattando come un brigante, sotto i comandi di quella che probabilmente, ritenevano una sciocca ragazzina, che non riusciva nemmeno a tenersi il cibo in pancia. Vedevo già nelle loro menti, profilarsi le più terribili punizioni, per quello che ai loro occhi sembrava, ogni minuto di più, un terribile tradimento. Forse pensavano avessi in mente qualche vendetta per riprendermi il regno usurpatomi. Sperai non mi si rivoltassero contro prima di essere giunti alla nostra destinazione.
Non avrei voluto trattare così Deam, non avrei mai voluto fargli del male, ma sentivo di dover essere cauta. Non era solo per il fatto che mi avesse assalita, ma perché mi aveva guardata come un’estranea e ancora peggio come una nemica. Non sembrava in sé. Avevo bisogno di risposte.
Deam riprese conoscenza mezz’ora dopo esserci rimessi in viaggio. Mentre la strada che percorrevamo deviava per costeggiare una ricca boscaglia.
«Fermatevi. Dove mi state portando?», domandò adirato. «Voi due, vi conosco!», disse, cercando di alzare la testa dalla sua scomoda posizione a penzoloni sul dorso dell’animale. «Siete delle guardie imperiali».
Iane e Rimet erano rigidi e bianchi in volto come dei cadaveri. Le cose si mettevano male. Feci rallentare il cavallo e mi portai di fianco a Deam.
«Perché mi hai attaccata in quel modo?», chiesi.
I suoi occhi freddi incrociarono i miei. Erano occhi che non mi conoscevano. Mi sentii morire dentro. Cosa stava succedendo?
Deam non rispose continuando a guardarmi arcigno.
«Deam...?». Tutte le domande che desideravo porgli mi morirono sulle labbra e un nuovo interrogativo si erse con preponderanza sopra tutti gli altri, insieme a un’assoluta sicurezza circa la sua conclusione.
«Tu non sai chi sono?», quasi mormorai quelle parole, tanto mi sembrava assurdo anche solo pensarle.
«Conosci il mio nome?», domandai.
«Non mi serve sapere il tuo nome», rispose deciso.
Allora era così. Non si ricordava di me. Possibile?
«Deam?», sussurrai il suo nome. Implorante. Terrorizzata.
Ricevetti in cambio da parte sua solo un aggrottamento della fronte. Mi sentii mancare il respiro.
Iane e Rimet si scambiarono degli sguardi, poi guardarono me. Iniziavano anche loro a intuire la verità.
Ero completamente stordita dall’inaspettato evolversi degli eventi. Guardai verso il sentiero senza vederlo veramente, con la mente totalmente vuota.
Sentii un tonfo. Deam si era lasciato scivolare dal dorso dell’animale, cadendo poi seduto a terra per lo scarso equilibrio datogli dalle mani legate. Si rimise prontamente in piedi e a tutta velocità si lanciò verso il folto del bosco.
Gridai il suo nome con il cuore in gola. Non potevo lasciarlo andare. Con un balzo scesi da cavallo e mi gettai a capofitto al suo inseguimento.
Riuscivo appena a scorgere la sua figura, mentre sfrecciavo tra gli alberi, cercando, quando ci riuscivo, di proteggermi con le mani il volto dai rami, che sembravano piccoli rasoi affilati sulla mia pelle.
Il terreno ricoperto di sterpi era molto irregolare e rischiai più volte di inciampare. Anche con le mani legate Deam era più veloce di me. Lo chiamai disperata, pregandolo di fermarsi, ma sapevo non mi avrebbe dato ascolto.
Il cuore mi batteva freneticamente nel petto e iniziava a mancarmi l’aria. Non sarei riuscita a stargli dietro ancora per molto. A un certo punto credetti di averlo perso, ma poi lo scorsi un po’ più a sinistra di dove lo stavo cercando con gli occhi e mi rimisi a correre in quella direzione.
Più mi sentivo affaticata, più sentivo crescere dentro di me la disperazione data dalla sconfitta. Avrei finito per cedere, ma non era ancora arrivato quel momento. Strinsi i pugni e costrinsi le mie gambe a continuare a muoversi.
Iniziai a sentire il rumore di un fiume e più sotto un altro suono, come di un basso boato. Gli alberi andavano diradandosi e questo mi permise di aumentare ulteriormente la velocità. A un certo punto mi ritrovai fuori dal bosco, su un terreno roccioso a ridosso di un torrente. Lasciai spaziare la vista e vidi Deam a un centinaio di metri da me, che correva affiancando il corso d’acqua. Mi rimisi all’inseguimento.
Senza gli alberi a ostacolare il cammino, riuscii a guadagnare un po’ di terreno su di lui, ma ormai ero allo stremo delle forze.
Il boato si era andato mano a mano intensificando, dovevamo essere vicini a una cascata.
Dopo altri sfiancanti minuti di corsa lo vidi fermarsi. Rallentai con il fiatone, cercando di trovare ossigeno. Barcollavo per lo sforzo.
Deam stava in cima a una rupe. Il corso del fiume si interrompeva bruscamente e non c’era modo di proseguire. Eravamo arrivati alla cascata.
Pensai con sollievo che fosse finita. Invece vidi Deam guardare giù dal burrone e un secondo dopo spiccare un balzo, lanciandosi nel vuoto.
Urlai con quanto fiato avevo in gola. Raggiunsi in fretta il bordo del precipizio, dove mi buttai carponi, sporgendomi dalle rocce. Il torrente faceva un salto di una cinquantina di metri, atterrando in un piccolo ristagno d’acqua e continuando poi il suo corso verso valle.
Rimasi qualche secondo interminabile ad aspettare di veder Deam riemergere, con il cuore che mi rimbombava nelle orecchie, ma di lui non c’era più traccia.
Capii di non avere altra scelta. Mi passai le mani sul viso stringendo gli occhi. Tremavo come una foglia. Mi issai in piedi e prima di perdere il coraggio, feci un paio di passi indietro per prendere la rincorsa e con un lancio, mi buttai.
Caddi per quello che mi sembrò un tempo infinito. Quando finalmente raggiunsi l’acqua, l’impatto fu ancora più violento di quanto mi fossi aspettata. Tra il turbinio della schiuma riuscii a scorgere parte del fondale. Era un insieme di rocce appuntite che svettavano verso l’alto e carcasse di alberi. Accanto a me un spuntone aguzzo lambiva quasi la superficie. L’avevo mancato per un soffio.
Riemersi, prendendo fiato. Mi guardai intorno, ostacolata dagli spruzzi che mi finivano negli occhi. Non riuscivo a vedere Deam da nessuna parte. Il panico ormai mi stava per sopraffare. Cercai di dominarlo. Presi un profondo respiro e mi immersi nuovamente.
Finalmente lo vidi. Lottava per risalire, ma qualcosa glielo impediva, tenendolo bloccato sul fondo del fiume. Nuotai fino a lui. Quando si accorse di me, per poco non si fece sfuggire di bocca il poco ossigeno che ancora gli rimaneva. Mi portai dietro di lui e vidi che le corde che gli legavano i polsi, si erano impigliate in un ramo. La manica della giacca era strappata e un brutto taglio gli percorreva la pelle sull’avambraccio sinistro. Afferrai il tronco e cercai di spezzarlo. Al secondo tentativo si ruppe. Presi Deam sotto le braccia e lo aiutai a raggiungere la superficie.
Quando poté respirare di nuovo, iniziò a tossire furiosamente. Lo trascinai, nuotando, fino alla riva, dove finimmo tutti e due a terra sdraiati. Mi girai con il viso rivolto verso il cielo. Il cuore mi martellava nel petto. Credetti non sarei mai più stata in grado di muovermi.
Deam accanto a me era riverso sulla spalla sinistra. Gli occhi chiusi e la bocca leggermente aperta da cui respirava affannosamente.
Sulla cima della cascata vidi una figura che si muoveva. Era Iane. Ringraziai il cielo e chiusi gli occhi.
Ci misero un’ora per raggiungerci. Per tutto il tempo io e Deam rimanemmo distesi nell’erba, nella stessa posizione in cui ci eravamo accasciati al suolo, alternando stati di coscienza e incoscienza. Quando arrivarono iniziavo appena a riprendermi.
Caricammo Deam sul cavallo nella stessa posizione di prima, ma questa volta per sicurezza, lo fissammo con delle corde anche al destriero. Lui non si oppose, troppo esausto anche solo per protestare.
Io ebbi bisogno dell’aiuto di Rimet per issarmi sul dorso dell’animale, il mio corpo non voleva ancora collaborare, ma quello che mi preoccupava di più, era lo stato di angoscia che mi opprimeva il petto e da cui non riuscivo a liberarmi.


La sera le nuvole iniziarono a diradarsi e la luna apparve ad illuminare il nostro cammino. I cavalli erano stanchi e anche noi eravamo sfiniti. Così facemmo una leggera deviazione per raggiungere una roccaforte delle milizie, una di quelle che erano disseminate per il paese e utilizzate dalle guardie come base per i loro spostamenti. Era ben nascosta dalla vegetazione, così che, la vidi solo quando ci fummo praticamente davanti, dopo aver abbandonato la strada maestra ed esserci inoltrati per qualche minuto all’interno del bosco che costeggiava il sentiero principale.
L’edera si arrampicava lungo tutta la costruzione in pietra, inglobandola, come se anch’essa facesse parte della foresta. Una torretta con il tetto a quattro falde svettava verso l’alto, innalzandosi sopra il resto dell’edificio, ma anche di questa, la natura aveva preso possesso, ricoprendola con il suo manto verde.
Rimet si occupò dei cavalli, portandoli sul retro, dove doveva esserci un ricovero adatto a loro. Iane irrequieto, teneva Deam, guidandolo, per la corda che gli cingeva i polsi, come se avesse tra le mani qualcosa di cui fosse impaziente di liberarsi al più presto. Aprii la porta e mi feci da parte per farli passare.
Le stanze interne erano piccole, le finestre minuscole e i muri e il pavimento in pietre facciavista facevano sembrare l’ambiente ancora più angusto e opprimente. Sembrava di stare in una grotta.
Portammo Deam in una camera minuscola e senza aperture sull’esterno, ma dove c’era un lettino su cui si poteva sdraiare e lo chiudemmo dentro, senza slegarlo.
Saremmo rimasti lì a riposarci per quattro ore, poi avremmo ripreso il viaggio.
Dopo avermi mostrato una stanza dove potevo sistemarmi, Iane e Rimet portarono due brande nell’ingresso e vi si abbandonarono sopra.
Uno dei locali era adibito a cucina. Trovai un bicchiere e una bacinella in uno dei mobili che ne componevano lo scarno arredamento, li posai su un vassoio e uscii per andare a un pozzo che avevo notato antistante la rocchetta. Li riempii d’acqua e rientrai. Davanti la stanza di Deam mi fermai un momento. Poi mi feci forza e sbloccai la serratura con la mano destra, mentre con l’altra reggevo in equilibrio il vassoio. Temetti potesse tentare qualche altra mossa per fuggire. Invece era sdraiato, coricato sulla spalla destra, sul basso materasso del letto a una piazza. Quando aprii la porta, si mise a fatica seduto.
Si limitò a guardarmi senza dire niente, mentre mi inginocchiavo e appoggiavo il vassoio per terra davanti a lui. Aveva un ematoma violaceo alla base del naso, un taglio incrostato di sangue rappreso sopra al sopracciglio destro, tutti e due opera mia, a ricordo di quando lo avevo steso alla locanda e una quantità imprecisata di piccoli taglietti su tutto il viso. Probabilmente quelli c’erano anche sul mio.
Estrassi un fazzoletto pulito dalla mia giacca e lo immersi nell’acqua fresca della ciotola. Poi gli porsi il bicchiere.
«Hai sete?», chiesi, avvicinandoglielo alle labbra.
Lui bevve qualche sorso, senza distogliere gli occhi penetranti dai miei. Iniziavo a sentirmi agitata e il cuore mi batteva forte nel petto.
Presi la pezza e la strizzai. La portai sul suo viso e iniziai a pulirgli delicatamente i tagli. Lui mi lasciò fare. Quando mi avvicinai troppo alla base del naso strizzò gli occhi dolorante e si ritrasse leggermente con un grugnito.
Abbandonai la mano in grembo.
«Davvero non ti ricordi di me?», non riuscii a trattenermi dal chiederlo e la mia voce parve anche alle mie orecchie fin troppo disperata e implorante. Deam sembrò preso alla sprovvista, schiuse la bocca per un attimo, ma subito la richiuse.
Mi resi conto di dover soppesare bene le parole. Temevo non mi avrebbe creduto, se gli avessi raccontato la verità e non volevo passare per bugiarda, togliendomi ogni possibilità di guadagnare la sua fiducia. Sempre che non fosse già troppo tardi.
«Perché mi hai attaccata? perché vuoi l’oggetto che porto nella tasca?», domandai.
Lui cercò di aggrottare le sopracciglia, ma l’unica cosa che ottenne fu una smorfia di dolore.
«Qualcuno ti ha chiesto di prenderla?», insistei.
Era da un po’ che ci pensavo. Solo una persona mi aveva visto infilare la fede nella tasca destra della giacca.
Deam rimase imperscrutabile. Sembrava deciso a non rivelarmi niente.
Sospirai per la frustrazione. Aprii il bottone della tasca destra della mia giacca ed estrassi il sacchettino di stoffa. Lo slegai e mi feci scivolare l’anello sulla mano.
«È tuo se lo vuoi, ma solo alla fine del nostro viaggio. Solo quando avrò scoperto di cosa si tratta», dissi.
Lessi un accenno di stupore sul suo volto, ma subito si spense. Probabilmente pensava lo stessi ingannando.
Rimisi la vera in tasca. Sciacquai il fazzoletto e ripresi a tamponargli i tagli finché non furono completamente puliti. Poi mi sedetti accanto a lui sul letto e gli aprii i lembi della manica strappata per occuparmi anche del taglio che aveva sul braccio. Era meno profondo di quanto avessi temuto. Si stava già rimarginando. Detersi anche quello.
Quand’ebbi finito, afferrai il vassoio e lasciai la stanza. Quando mi richiusi la porta alle spalle. Sentii all’interno le molle del letto che cigolavano, mentre Deam si distendeva nuovamente.
Cercai di respirare e di calmarmi, ma senza successo. Mi portai una mano alla bocca. Non avevo voluto mostrare a lui il mio sconcerto, quando avevo tolto la fede dalla busta e mi ero accorta che il suo colore era cambiato. Adesso non era più rossa come il fuoco, ora era senza dubbio di un pallido arancione.


Quattro ore più tardi eravamo di nuovo in sella. Deam sembrava così ammaccato, che non ebbi cuore di caricarlo ancora a pancia in giù. Così, lo aiutammo a issarsi e mettersi seduto. Sperai non ne approfittasse per cercare di fuggire nuovamente.
Riuscivo a vedere la pelle dei suoi polsi arrossata, per il contatto prolungato con la dura fune, ma non potevo rischiare di slegarlo.
Se tutto procedeva come speravo, entro tardo pomeriggio saremmo arrivati a destinazione. Pregai perché la savia abitasse ancora in quella casa. Dopotutto erano trascorsi più di diciassette anni dall’ultima volta che la regina e suo marito avevano avuto bisogno dei suoi consigli.
Man mano che ci avvicinavamo alle montagne, il cielo prese a rombare. Sembrava che il tempo non volesse darci tregua. Sopra le cime aguzze del massiccio le nubi vorticavano e si agitavano inquiete, sferzate da ripetuti lampi che rischiaravano la notte. Poco dopo iniziò a piovigginare.
Il sentiero si stava facendo sempre più scosceso e il bosco, che lo circondava da ambedue i lati, sempre più fitto. Cavalcavo accanto a Deam, alla sua sinistra. Iane ci precedeva, tenendo la corda che legava le briglie del cavallo di Deam. Rimet ci seguiva, diversi metri indietro rispetto a noi.
Sembrava incredibile, ma saperlo accanto a me anche in una circostanza del genere, mi era di conforto. Anche se non si ricordava di me, anche se sembrava odiarmi, il mio cuore continuava a cercarlo disperatamente. Vedevo con la coda dell’occhio che ogni tanto si girava a guardarmi, ma io rimasi fissa con lo sguardo di fronte a me. Non me la sentivo di affrontare il suo sguardo severo.
A un tratto un fulmine accompagnato da un boato assordante trafisse l’etere, schiantandosi alla nostra destra e spezzando un abete, che con una vampata si infiammò, prendendo subito ad ardere.
I cavalli si agitarono violentemente. Lo stallone di Deam si imbizzarrì e Iane perse la presa sulla corda legata alle sue redini, già impegnato com’era a cercare di calmare il suo destriero. Il cavallo si alzò sulle gambe posteriori e Deam incapace di reggersi per via delle braccia legate dietro alla schiena, scivolò all’indietro, disarcionato. Mi allungai verso di lui, gridando il suo nome e riuscii ad afferrargli il braccio sinistro, ma era troppo pesante perché riuscissi a sorreggerlo, così venni scalzata da cavallo anch’io. Mentre cadevamo al suolo, d’istinto lo tirai verso di me, portandomi sotto di lui, per evitargli l’impatto con il terreno. Il colpo dovette essere molto forte, perché persi conoscenza.
La vista mi tornò poco a poco. L’albero in fiamme in alcuni punti era ancora un falò ardente. La pioggia mi picchiettava lievemente sul viso. Iane mi stava sopra e urlava qualcosa che non riuscivo a capire. Deam era inginocchiato poco distante, con uno sguardo confuso e sconvolto. Sembrava non si fosse fatto male.
‘Per fortuna’, pensai.
Rimet bianco in volto, osservava la scena, mentre tratteneva i cavalli per le briglie.
«State bene, state bene mia signora?», gridava Iane.
Mi alzai sui gomiti e sentii una fitta alla testa. Mi portai una mano sulla nuca e quando la ritrassi, vidi che era sporca di sangue. Per il resto sembravo tutta intera.
«State sanguinando!».
Iane estrasse un fazzoletto bianco e dopo avermi aiutata a mettermi seduta, me lo premette dietro il capo.
«Sto bene», dissi, «davvero». Cercai di fare un sorriso per tranquillizzarlo.
Dopo qualche secondo il sangue sembrava già aver smesso di uscire, così cercai di alzarmi in piedi. Una vertigine mi fece sbandare e Iane mi prese al volo. Deam si era alzato in piedi di scatto e aveva fatto un passo nella nostra direzione, come se avesse voluto afferrarmi lui, prima di ricordarsi di avere le mani legate.
Riuscii a ritrovare l’equilibrio.
«Grazie, tutto a posto», dissi a Iane, che lentamente mi lasciò andare. «Dobbiamo proseguire», aggiunsi risoluta.
Risalimmo sui destrieri, ma ben presto la strada si arrampicò per la montagna, diventando così ripida e impervia, che dovemmo scendere e proseguire a piedi.
Il sentiero continuò a stringersi, fino a raggiungere poco più del metro di larghezza. Da una parte la nuda roccia, dall’altra lo strapiombo. Il terreno era scivoloso per via della ghiaia e della pioggia, e massi di diverse dimensioni ostacolavano il passaggio. Mi chiesi da quanto tempo nessuno passasse per quella via. Iniziai a disperare che la savia abitasse ancora in quel luogo.
Iane guidava la comitiva, seguito da me, da Deam e infine da Rimet che chiudeva la fila e conduceva i cavalli legati l’uno all’altro. Iniziavo a sentirmi esausta e un leggero mal di testa, forse per la botta che avevo preso, mi pulsava sempre più forte nelle tempie.
La pioggia si intensificò, fino a diventare un acquazzone.
«Mia signora dobbiamo tornare indietro, non possiamo proseguire con questo tempo, è troppo pericoloso», disse Iane girandosi verso di me.
Non potevo dargli torto.
«Va bene, riproveremo quando il tempo si sarà calmato», dissi mio malgrado.
Iane andò da Rimet per decidere dove fosse meglio far girare i cavalli.
In quel momento delle piccole pietre iniziarono a scendere dall’alto. Io e Deam ci addossammo alla parete.
«Liberami le mani», disse ad alta voce per farsi sentire sopra il rumore del temporale, «sta diventato pericoloso, così non sono abbastanza stabile».
Ci guardammo negli occhi. Sapevo di non avere scelta. Lo feci girare e snodai i lacci. Una volta libero prese a massaggiarsi i polsi.
Andai verso i cavalieri, ma all’improvviso insieme al pietrisco, dall’alto vidi cadere anche un grosso masso. Iniziai a gridare verso Iane e Rimet perché si mettessero in salvo. Fecero appena in tempo a spostarsi, che il macigno si schiantò tra di noi sul sentiero, trascinando anch’esso a valle e lasciando solo una grossa voragine. Il terreno reso instabile iniziò a franare. Non feci in tempo ad arretrare e iniziai a scivolare, finché non ebbi più niente sotto i piedi e caddi nel vuoto. Mi sentii afferrare per il polso della mano destra. Deam si era buttato a terra e mi tratteneva dal cadere nel baratro. Vidi con orrore che il terreno sotto di lui continuava a sgretolarsi.
«Dammi l’altra mano», gridò.
«No, cadrai anche tu», urlai.
«Ti ho detto di darmi l’altra mano», gridò imperioso, «coraggio», aggiunse in tono più controllato.
Dopo un secondo di esitazione alzai l’altro braccio e Deam lo afferrò. Cercai con i piedi un punto stabile dove appoggiarmi, ma la roccia continuava a franare. Finalmente trovai un appiglio e Deam iniziò a sollevarmi. Con il suo aiuto riuscii a raggiungere il bordo, prima con le braccia, poi con il busto, alla fine con le gambe e a issarmi nuovamente sul sentiero. Appena fui in piedi, Deam mi attirò a se, indietreggiando lontano dal precipizio fin quando la sua schiena non toccò la parete rocciosa. Avevamo tutti e due il fiatone.
Cercai di rallentare i battiti del cuore, ma con il viso poggiato sul suo petto e le sue braccia che mi cingevano, tenendomi stretta a lui, non era cosa facile.
Sentii le voci di Iane e Rime che ci chiedevano se stessimo bene. Deam come risposta alzò un pollice verso l’alto.
«Siamo stati fortunati», disse Deam.
«Fulmini, diluvi e frane, ma dove ci vedi tanta fortuna?», replicai.
Deam scoppiò a ridere.
«Fortunati nella sfortuna, mettiamola così», rispose.
Il crepaccio era troppo largo perché lo potessimo saltare. Così Iane disse sarebbero tornati indietro e avrebbero cercato una strada alternativa per raggiungerci. A me e a Deam invece non restava che andare avanti. Non avevamo altra scelta.
Dean mi stupì, prendendomi per mano, prima di avviarci lungo il sentiero.


Il vento e la pioggia ci investivano con ferocia senza darci tregua. E il freddo iniziava a farsi pungente. Non so quante volte scivolai e Deam dovette sorreggermi per non farmi finire bocconi sul sentiero. Sembrò passare un tempo infinito prima che il viottolo si allargasse e ci trovassimo di colpo in una piccola vallata. A un centinaio di metri da noi, una casetta a due piani con le finestre illuminate, spiccava per quanto sembrasse fuori posto in quell’ambiente ostile. La raggiungemmo e Deam bussò con forza sull’uscio. Quando si schiuse ci trovammo davanti una vecchia di bassissima statura. I capelli bianchi erano raccolti in un alto chignon. Il viso era una ramificazione di rughe profonde. Indossava una camicia a maniche lunghe, rosa chiaro, con dei volant intorno al collo e sulle spalle. Una gonna grigia fino alle caviglie e un grembiule bianco con qualche macchia legato in vita. Ai piedi portava degli zoccoli di legno scuro. I suoi occhi, di un azzurro chiarissimo, si inarcavano gioiosi, così come la bocca sdentata aperta in un largo sorriso.
«Era ora, forza venite», disse e ci fece cenno di entrare.
L’interno dell’abitazione era rallegrato da uno scoppiettante camino, nel quale ardeva un cumulo di ciocchi.
Rivolto verso il focolare, sopra un tappeto colorato, c’era un morbido sofà, sul quale era adagiata una stola ricamata con un motivo floreale; alla sua sinistra una poltrona della stessa fattura; alla destra una sedia a dondolo in vimini con sopra due grossi cuscini. Davanti a loro era collocato un basso tavolino ingombro di libri. Dietro al divano c’era un tavolo circolare con tre sedie. Alla sua destra un cucinino a legna, sopra il quale sobbolliva in un tegame, una qualche pietanza dal profumo appetitoso. Sulla sinistra del salone, addossato alla parete, c’era un grande cassettone finemente intagliato, anch’esso stracolmo di volumi rilegati e un attaccapanni. Sulla parete in fondo alla sinistra del camino c’era una porta, che probabilmente conduceva alle scale per accedere al piano superiore.
Una volta entrati, la signora ci chiese di toglierci i mantelli bagnati, che agganciò prontamente all’appendiabiti.
Cercai di parlare, ma lei fece cenno con la mano di tacere, chiudendomi la bocca. Aprì un cassetto del comò e dopo una veloce ricerca, estrasse due pesanti coperte rosse, che ci consegnò, dicendoci di avvolgercele intorno al corpo. Dopo un momento di esitazione noi obbedimmo. Poi quasi spintonandoci, ci fece accomodare sul divano davanti al camino e dateci le spalle, si mise a trafficare con piatti e padelle.
Guardai Deam con tanto d’occhi. Lui fece un’alzatina di spalle e il suo sorriso sghembo. La sua leggerezza contagiò anche me e finii anch’io per ridere di quell’assurda situazione.
La vecchietta tornò con due ciotole piene di zuppa e ce le porse.
«È alla temperatura giusta, mangiate, vi sentirete subito meglio», disse.
Era vero. Appena il liquido mi arrivò nello stomaco mi sentii subito rinfrancata, la pressione alla testa si allentò e un piacevole tepore mi si diffuse nelle membra. Anche Deam stava riacquistando colorito. I nostri capelli e vestiti, poco prima ancora bagnati, parevano già quasi completamente asciutti. Mi chiesi se quella donna non fosse in verità una maga.
Mangiammo in silenzio, mentre la signora mormorava una dolce litania, cullandosi sulla sedia a dondolo, con lo sguardo perso nel fuoco.
Quando finimmo il pasto, la vecchietta raccolse le scodelle e dopo averle lavate, ritornò a sedersi e si mise a osservarci. Poi si rivolse a me.
«Allora», disse, «mostramelo».
La guardai spaesata.
«Sveglia bambina mia. L’anello! Non sei venuta qui per quello?».
Ero sbigottita, come faceva a saperlo?
Sbattei un paio di volte le palpebre e dopo un momento, un po’ impacciata, presi il sacchettino dalla tasca. Lo ribaltai, mettendo sotto l’altra mano e la fede mi cadde sul palmo. Trattenni il respiro. Era di un colore giallo dorato. Mi girai con occhi imploranti verso la signora. Lei allungò la mano e io gliela porsi. La alzò davanti agli occhi e inizio a studiarla. Quando parve soddisfatta si alzo e si rivolse a Deam.
«Mio caro se vuoi scusarci, io e la signorina dobbiamo parlare in privato», disse e mi fece segno di seguirla.
Mi alzai dalla poltrona, ma subito mi bloccai e mi voltai verso Deam. Non volevo lasciarlo solo. Anche se mi aveva salvata e aiutata ad arrivare fino a lì, non avevo dimenticato di averlo fatto prigioniero. Temetti potesse andarsene, fuggire da me.
Lui dovette capirlo, perché mi prese una mano e guardandomi negli occhi disse:
«Mi troverai qui».
Feci un cenno di assenso col capo e lui mi lasciò andare.
La signora mi condusse al di là della porta accanto al camino. Ci trovammo in un corridoio con una rampa di scale sulla sinistra e altre due stanze che si aprivano sulla destra. Entrammo nella seconda. Era un piccolo studio ricolmo di libri. Ce n’erano ovunque. Sullo scrittoio. Sugli scaffali. In pile disordinate, che si alzavano da terra come bizzarre stalagmiti. Ne spostò qualcuno, liberando due sedie e ci sedemmo l’una davanti all’altra accanto alla scrivania, sulla quale appoggiò la vera. Si piegò verso di me e strinse le mie mani tra le sue.
«Non volevo parlare davanti al ragazzo», disse, «non ho idea di quanto sappia e non volevo turbarlo, se lo riterrai necessario, sarai poi tu a dargli spiegazioni».
Io feci di si con la testa e lei proseguì.
«Principessa, hai già compreso il potere che si è celato dietro questo piccolo anello?», domandò.
Chiaramente sapeva chi fossimo, non ne rimasi stupita e anzi ne fui sollevata. La vecchietta sembrava conoscere ogni cosa, così non ebbi remore nel parlare liberamente.
«Non ne sono sicura. Deam non si ricorda più di me. La magia che legava i nostri cuori si è rotta, ma siamo ancora vivi, per cui... non lo so», conclusi confusa, scuotendo la testa.
La signora mi lasciò le mani, sedendosi dritta sulla seggiola e riprendendo tra le dita la fede.
«Non sono una maga piccola mia, beh qualche piccolo trucchetto lo conosco anch’io, ma il mio dono è più che sufficiente per vedere con esattezza cosa si cela dietro le cose, e posso dirti con assoluta certezza che tipo di magia è stata veicolata attraverso questo anello, per colpire te e il principe, ma sono restia a parlartene, perché non sono buone notizie e vorrei che fossi preparata».
Mi sentii gelare il sangue nelle vene, ma dovevo sapere. Dopo uno scambio di occhiate la savia continuò.
«Quando il principe ha toccato questa vera, l’anello gli ha sottratto dei ricordi, giornate intere, rubate, come se non fossero mai avvenute. Le ha prese, portandole al suo interno. Tutti i giorni della sua vita da quando ti ha conosciuta. Il vostro amore era riuscito a mutare l’incantesimo fatto ai vostri cuori dal mago; unendoli in uno solo e questo via ha permesso di rimanere in vita entrambi. Uno stesso cuore, integro, eppure presente in due corpi separati. Ma ora le cose sono cambiate. Lui non ti ha incontrata e dunque non si è mai innamorato di te e senza amore, il legame magico si è sciolto, come se non fosse mai esistito».
Cercai di capire cosa potesse significare quello che mi aveva appena detto.
«Questo vuol dire che siamo tornati alla stessa situazione in cui ci trovavamo prima di conoscerci?», domandai.
La signora scosse la testa.
«No, tu hai già compiuto diciassette anni. L’incantesimo del mago ha già fatto il suo corso, si è già dissolto e la metà del cuore che il principe ti ha donato non gli è stata restituita», rispose.
«Non capisco», dissi ad alta voce, iniziavo ad essere spaventata. «Deam è ancora vivo, se fosse come dice dovrebbe essere morto».
La savia mi guardò con occhi pieni di compassione. Fu come essere trafitta da due spade affilate.
«Questa fede, non è sempre stata di questo colore vero?», chiese, riappoggiandola sullo scrittoio.
«No, continua a cambiare colore». Parlai cercando di controllare la voce, ma avevo già iniziato a tremare.
«Questa piccola vera lo sta tenendo in vita. Lui e l’anello sono interconnessi, ma pian piano la fede sta perdendo i suoi ricordi racchiusi al suo interno. Quando li avrà smarriti tutti, tornerà ad essere un semplice anello di legno e il principe morirà».
«Ma... , ma se lui si innamorasse nuovamente di me, forse la magia che univa i nostri cuori si ricreerebbe?». Conoscevo già la risposta, ancora prima di finire la domanda.
«Non funzionerebbe, quel legame si era creato per un mutamento dell’incantesimo che vi aveva fatto il mago, ma quel sortilegio non esiste più».
«Ma ci deve essere un modo, ci deve essere!».
Avevo iniziato a iperventilare. Mi piegai fino a toccare con la fronte le ginocchia, stringendomi il busto con le braccia. La testa era un tumulto di pensieri confusi. Cercavo un appiglio a cui aggrapparmi, mentre la mia mente andava alla deriva. Una speranza. Qualsiasi cosa. Tutto, ma non questo. Deam non poteva morire.
La vecchia prese ad accarezzarmi la schiena.
«Su, su bambina, fatti forza. Cos’è questo atteggiamento. Non puoi lasciarti andare così alla disperazione», disse.
Alzai la schiena.
«Cosa posso fare?», chiesi con la voce incrinata.
Lei rimase per un momento pensierosa, poi disse:
«L’anello non è ancora tornato del suo colore originale, se i ricordi che ancora rimangono al suo interno tornassero dentro di lui, forse e dico forse, anche la magia che vi univa tornerebbe a esistere, ma le mie sono solo speculazioni».
«Lei può farlo? Può riportare indietro i suoi ricordi?».
La savia scosse la testa.
«Mi dispiace, non ne sono capace. La persona che ha imposto l’incantesimo probabilmente ne è in grado, ma io non so dirti chi sia, i maghi sono come pagine bianche all’interno di un libro. Buchi vuoti che non riesco a vedere».
Scoppiai a piangere.
«A volte vorrei non essere mai nata, se non fosse per me, Deam non si troverebbe in questa situazione», singhiozzai.
Lei prese a massaggiarmi nuovamente la schiena.
«Non dire così. Il nostro principe è un ragazzo forte e coraggioso, ma crescere da solo, senza sicurezze e senza amore, lo ha reso anche immensamente fragile. Tu non avevi i tuoi genitori, ma avevi la tua balia, che ti ha dato tutto l’amore di cui necessitavi. Lui invece era solo. Sua madre, una marionetta incapace di agire autonomamente, sotto l’influenza del mago, non c’è mai stata per lui quando ne avrebbe avuto più bisogno. Nessuno all’interno del castello gli si è avvicinato, distanziati dal suo rango e dalla sua posizione. E il mago stesso lo ha fatto crescere in un clima di oppressione e tormento. Quando è stato abbastanza grande per prendersi più libertà all’esterno del castello, era ormai troppo tardi. Il suo animo altruista e generoso ha sempre prevalso, ma aveva innalzato delle barriere impenetrabili intorno al suo cuore. Muri di vetro, capaci di tenere fuori i sentimenti, ma che un altro duro colpo avrebbe mandato in frantumi, trafiggendo il suo cuore di schegge. Distruggendolo. Tu hai impedito che questo avvenisse. Hai rimosso quelle barriere. Il principe è un sole ardente, ma anche un sole ha bisogno di qualcosa che lo alimenti per continuare a esistere e questo per lui sei tu. Lo è il tuo amore. Per cui smettila di frignare e lamentarti e sii forte. Hai ancora tempo per trovare una soluzione».
La guardavo a occhi spalancati.
«Come ci riesce? Come fa a sapere queste cose... A leggere così bene dentro alle persone?», chiesi piena di meraviglia.
Lei sorrise.
«Le persone e gli eventi per me sono come libri aperti. Per conoscere le cose devo solo trovare la pagina giusta», rispose.
Io e la vecchia signora restammo ancora un po’ nel piccolo studio. Lei prese a parlare di frivolezze allo scopo di distrarmi e farmi calmare. Ci riuscì. Non sapevo se stesse usando un altro dei suoi trucchi, ma pian piano mi sentii sempre più tranquilla e fiduciosa.
Quando fu chiaro che ero ormai tornata in me, ci alzammo e facemmo ritorno nel salone. Appena aprimmo la porta Deam si voltò a guardarci e i nostri occhi si incontrarono. Sentii una stretta al cuore e una ferma determinazione si insinuò nel mio animo. Avrei protetto qualcosa di così puro e bello con tutte le mie forze. Lo avrei salvato a qualunque costo.


Spostammo il basso tavolino e sopra il tappeto stendemmo delle morbide coperte e un guanciale, così come sul sofà. La vecchietta ci aveva dato la buonanotte e si era ritirata nella camera al piano di sopra, dopo che ci aveva fornito, nella stanza adiacente lo studio, tutto quello che ci potesse servire per darci una ripulita. Cosa che avevamo prontamente fatto, pieni di gratitudine.
Mi ero offerta di dormire io per terra, ma Deam non aveva voluto sentire ragioni e vi si era disteso a pancia in su con le braccia sotto la testa, dopo aver sprimacciato per bene il cuscino.
All’improvviso si volò verso di me.
«Qual è il tuo nome?», chiese, sollevando le sopracciglia.
Quella domanda mi fece sentire un po’ triste.
«Mi chiamo Aili».
«Aili! È un nome grazioso», disse sorridendomi.
‘Me lo avevi già detto’, pensai.
«Perché stai viaggiando con due guardie imperiali?».
«È una lunga storia», risposi evasiva.
Mi scrutò per un attimo, ma poi vedendomi restia a dare ulteriori informazioni, rinunciò ad indagare oltre e tornò a guardare il soffitto. Mi sedetti sul divano incerta sul da farsi, con il sacchettino contenente la vera tra le mani.
«Deam», chiamai per attirare la sua attenzione. «Ti avevo detto che te l’avrei consegnata, una volta che avessi scoperto di cosa si trattava», dissi alzando la bustina, «ma adesso che lo so, non posso proprio dartela, è troppo importante per me».
Lui si mise seduto, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e intrecciò le dita delle mani.
«Ti devo chiedere scusa», disse guardando in basso davanti a se, «è chiaro che sono stato ingannato. Non puoi essere una strega. Hanno fatto leva sul mio odio nei confronti dei maghi, e io ci sono cascato come uno scemo». Si passò con forza una mano sulla testa, scompigliandosi i capelli.
«Vuoi dirmi chi è stato?», domandai.
«Una ragazza che lavora al castello, la cameriera personale del mago. Sarà stato lui a chiederle di farlo. Starà tramando qualcosa come al solito», fece una risata triste, torcendosi le mani. «Mi era sembrata così sincera. Maledizione, che stupido, finisco sempre per farmi prendere in giro da lui», disse, riprendendo a torturarsi la testa.
Il suo dolore mi arrivava come una morsa di ghiaccio che mi stingeva il cuore.
Parlava come se il mago fosse ancora vivo. Non sapeva che grazie a noi era diventato un cumolo di cenere. Eica doveva aver agito in totale autonomia. Come e perché, avrei dovuto scoprirlo.
«Quella ragazza ti ha chiesto di rubarmi l’anello?», chiesi.
«Già, mi aveva detto che eri una strega e che con quella vera avevi rubato la vita dei suoi genitori. Mi aveva chiesto di sottrartela e portargliela. Non ho idea di cosa sia quella fede e di cosa lui ci volesse fare. Perdonami. Mi sono fatto usare come una marionetta. Dannazione, dannazione!». Tirò un pugno con forza sul pavimento.
Per tutto il tempo aveva continuato a parlare senza mai guardarmi in volto.
Appoggiai la bustina accanto a me, poi scivolai giù dal divano, inginocchiandomi accanto a lui e gli misi una mano sul braccio. Lui lo abbassò e fece per allontanarsi da me. Non poteva ricordarlo, ma ci eravamo già trovati in una situazione simile: a casa della signora Iridea, dopo la fuga dai briganti. Quella notte mi ero ritirata confusa nella mia stanza. Oggi avrei agito diversamente. Le barriere di vetro erano di nuovo erette intorno al suo cuore, ma le avevo già rimosse una volta, potevo farlo ancora.
Presi il suo viso tra le mani e lo costrinsi lentamente a voltarsi verso di me.
«Va tutto bene», sussurrai, «andrà tutto a posto», gli dissi guardandolo negli occhi.
Avvicinai il mio viso al suo e lui cercò di scostarsi, ma non glielo permisi.
«No», disse, «non posso».
«Si che puoi», dissi io e lo baciai.
Fu come se fossimo ancora una cosa sola. Il fuoco si sprigionò dalle nostre labbra, inondando i nostri cuori e per un attimo sperai che, come nelle favole, un bacio potesse risolvere ogni cosa.
Quando ci staccammo, ci guardammo negli occhi.
«Perché mi sembri così familiare?», chiese.
Io appoggiai la mia fronte alla sua, inclinando la testa e chiudendo le palpebre.
«Forse perché era destino che ci incontrassimo», risposi.
Quella notte dormimmo tutti e due sul pavimento. Lo tenni stretto tra le braccia, accarezzandogli i capelli, finché il suo respiro non si fece più lento e profondo e si assopì, poi mi lasciai andare anch’io alla stanchezza e mi addormentai.
La mattina seguente Deam era scomparso e con lui anche l’anello.


«C’è bisogno che te lo dica io, che non se n’è andato di sua spontanea volontà?», disse la savia.
«No, lo so già», risposi, mentre mi infilavo gli stivali seduta sul divano.
«Ah sì, hai il mio stesso dono?».
‘No, ma conosco Deam’, pensai.
«Sai dove cercarlo?».
«No». dissi mestamente. Non ne avevo davvero idea.
«Cosa farai adesso?».
Mi alzai in piedi, andai all’appendiabiti, dove afferrai il mio mantello e lo indossai.
«Lo cercherò».
«Trovalo in fretta, non gli restano molti giorni».
Strinsi forte l’orlo della veste.
«Non lo perderò, non lo permetterò».
Quando svegliandomi, non lo avevo trovato al mio fianco, avevo subito capito che doveva essere capitato qualcosa quella notte a mia insaputa, ma invece di disperarmi, avevo chiuso gli occhi e avevo poggiato una mano sul petto. Lo avevo sentito lì. La sua presenza ancora viva dentro di me. Era tutto quello di cui avevo bisogno per rimettermi in piedi e andare avanti.
«Brava ragazza, è questo lo spirito giusto», disse annuendo compiaciuta.
Aprii la porta. Fuori il sole brillava intensamente. Mi fermai sull’uscio.
«Grazie nonnina, di tutto».
«Nonnina? Non sono mica così vecchia». Rise di gusto, facendo sembrare la sua faccia ancora più rugosa di quella che era. Non potei fare a meno di sorridere anch’io.
«Parte della stradina che si inerpica su dal bosco è franata ieri sera, come faccio a tornare a valle?», chiesi.
«Santa misericordia bambina, non sarete arrivati su per quel sentiero? Sta venendo giù tutto lì, non ci passa più nessuno da almeno quindici anni».
‘Ah, ecco’, pensai.
«Segui verso ovest, poco più avanti troverai una strada che porta sulla via principale, da lì ti sarà facile orientarti».
Mi chinai per darle un bacio sulla guancia e uscii nel giorno assolato.
«Buona fortuna», mi gridò lei alle spalle.
Io agitai una mano in aria in segno di saluto.


Camminai per una decina di minuti. Il tiepido calore del sole del mattino si mescolava ancora alla fredda aria notturna, dandomi una sferzata di energia.
Scorsi la strada indicatami dalla signora e vidi delle figure a cavallo, venire nella mia direzione. Li riconobbi.
«Iane! Rimet!», gridai, alzando un braccio per attirare la loro attenzione.
Non appena fui dappresso a loro, smontarono dai destrieri.
«Mia signora state bene? Dov’è il principe?», chiesero contemporaneamente.
«Sta bene, non vi preoccupate, ma non è più con me». Afferrai le briglie di uno dei quattro stalloni. «Dobbiamo tornare immediatamente a palazzo, ve la sentite di rimettervi subito in viaggio?».
Per tutta risposta risalirono prontamente in groppa agli animali. Io con un balzo feci altrettanto e incitati i cavalli, partimmo al galoppo.
Nel viaggio di ritorno il cielo fu clemente, trovammo solo qualche sporadica pioggerella. Non ci fermammo che per brevi e indispensabili momenti. Per il resto del tempo cavalcammo senza sosta. Non dormimmo e mangiammo appena. Nel primo pomeriggio del giorno dopo eravamo già in vista del castello.
Quando entrammo nelle scuderie, la madre di Deam e la mia balia erano già state informate del nostro ritorno, perché le vidi correrci in contro, scendendo dalle gradinate del parco. Mi congedai dai due cavalieri e le seguii in un salotto privato. Lì la sovrana mi raccontò della sparizione di Deam tre giorni prima. La regina si era assentata solo per pochi minuti dalla stanza del figlio ancora addormentato. Una volta tornata, di lui non c’era più traccia, solo delle coperte spiegazzate a indicare la sua precedente presenza sul grande letto a baldacchino. Lo aveva fatto cercare per tutto il palazzo, ma senza risultato.
Volle sapere dell’esito del mio viaggio, ma le chiesi di non domandarmi niente, di darmi ancora qualche giorno di tempo. All’inizio parve riluttante, ma poi acconsentì. Non doveva essere facile per lei sentirsi tagliata fuori e affidarsi completamente a una ragazza che, tutto sommato, conosceva appena; soprattutto dopo tanti anni passati sotto il controllo del mago. Il fatto che non potesse nemmeno lontanamente immaginare la gravità della situazione, fu di aiuto nel renderla così remissiva.
Dal canto mio, avrei potuto raccontarle tutto. Sguinzagliare le milizie per il regno in cerca di Deam. Non gravarmi di tutto il peso della situazione da sola. Dividere la mia angoscia e forse sarebbe stata la cosa giusta da fare. Forse stavo commettendo un terribile errore, ma da quando avevo conosciuto Deam, avevo capito più che mai, che per realizzare grandi imprese non servivano possenti eserciti. Era la passione dei cuori di singole persone a renderle possibili. In me si era radicata la convinzione, che nessun numero di guardie sarebbe mai stato sufficientemente grande perché riuscisse a trovarlo in tempo e la faccia tirata di sua madre mi aveva ulteriormente trattenuta dal confidarmi con lei, sobbarcandola di altro dolore e preoccupazione. Dovevo riuscire a salvarlo da sola e c’era un’unica persona nel castello che potesse aiutarmi a capire cosa stesse succedendo. Dovevo parlare con Eica.
Appena accennai ad alzarmi per andarmene, la mia balia mi bloccò, preoccupata, portandomi davanti a uno specchio, per farmi notare lo stato in cui mi trovavo. I capelli mi ricadevano sulla schiena in una massa aggrovigliata. I vestiti sporchi mi stavano incollati addosso, come se avessero voluto fondersi con la mia pelle. Gli occhi arrossati, erano contornati da pesanti occhiaie. Apparivo proprio come mi sentivo: uno straccio; ma non potevo preoccuparmi di simili dettagli, lo scorrere inesorabile del tempo non me lo permetteva. Le diedi un bacio sulla fronte e senza aggiungere altro abbandonai la stanza. Dovette intuire dal mio comportamento quanto le circostanze fossero disperate, perché non mi rincorse e mi lasciò andare.


La stanza di Eica era nell’ala del castello riservata alla servitù. Bussai alla porta. Non ottenendo nessuna risposta, provai ad abbassare la maniglia. Non era chiusa a chiave. Spinsi l’uscio ed entrai. La camera era di modeste dimensioni, spartana nell’arredamento, ma accogliente. La testiera del letto in legno massiccio poggiava sul muro di destra, un armadio a due ante su quello di sinistra, insieme a un cassettone. Un piccolo scrittoio con una sedia occupavano lo spazio tra due grandi finestre, che illuminavano l’ambiente, aprendosi sulla parete dinanzi a me. Mi avvicinai al tavolino e presi a visionare l’interno dei cassetti, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse darmi un indizio utile, ma ci trovai solo: un vecchio libro, un fermaglio per capelli e qualche pergamena intonsa.
La porta alle mie spalle si chiuse con un debole click e io mi girai di scatto presa alla sprovvista. Il ragazzo che avevo udito parlare con Eica e che mi aveva quasi investita pochi giorni prima, stava davanti alla porta e mi osservava. Questa volta lo riconobbi subito. Era il cameriere che si era occupato di me il giorno del mio compleanno, mentre ero rinchiusa nelle stanze private del mago.
«Non è qui, è da due giorni che sparisce a intervalli regolari», disse avvicinandosi lentamente, «da quando mi ha detto che veniva a riprendersi l’anello».
Feci un passo indietro.
«Visto che il principe non è rientrato con te, ne deduco che mia sorella abbia preso anche lui e che sia questo il motivo delle sue continue sparizioni», fece un sorriso triste, «ovvio, onde evitare problemi, meglio andare sul sicuro e non lasciarvi insieme; per poi riconsegnarti il corpo una volta che tutto sarà finito. Molto d’effetto, devo ammetterlo... O forse ti avrebbe fatta soffrire di più vederlo morire davanti a te?». Mi guardò come se fosse seriamente interessato alla risposta che potevo dargli.
‘Questo ragazzo non è normale’, pensai. Mi faceva venire i brividi.
«Eica è tua sorella?», domandai.
«Si. Il mio nome è Alect».
Si sedette sull’angolo del letto con una gamba piegata sul materasso.
«La vera, è stata lei a darmela?».
«Non sei molto intelligente vero?». Più che una domanda pareva una constatazione. «Certo che te l’ha data lei. Ovviamente avresti dovuto aprire tu la busta senza nessuno intorno. Trovandoti svenuta a terra, nemmeno una persona avrebbe collegato quella piccola fede alla tua condizione. Aveva calcolato che saresti rimasta incosciente per un paio d’ore. Invece il principe non si è ripreso per ben diciassette ore. Accidenti, perderti deve essere stato uno shock bello intenso. Eica credeva che a quel punto non si sarebbe più svegliato».
«Perché... perché l’ha fatto?».
«Lunga storia. Sei sicura di volerla sentire?».
Mi perforò con i suoi occhi gelidi. Io feci di si con la testa.
«Allora è meglio se ti metti comoda».
«Sto bene dove sono», dissi.
«Fa come vuoi». La sua bocca si incurvò in un sorriso, ma i suoi occhi restarono totalmente inespressivi.
«Io e mia sorella siamo nati in un paese a nord da qui. Si chiamava Blamistim. Era un piccolo villaggio, abitato per lo più da contadini e artigiani. Mio padre faceva il falegname. Mia madre si occupava di noi ed eseguiva qualche piccolo lavoretto di cucito, per racimolare qualche soldo in più. Abitavamo in una casa con solo tre stanze, grandi ognuna meno di questa camera. Quasi tutto l’arredamento era stato costruito da mio padre. Se la cavava bene, era bravo nel suo lavoro. Non eravamo ricchi, in verità neppure benestanti, avevamo quel poco che ci bastava per vivere, ma eravamo felici».
Per un momento si fermò. Lo sguardo perso. Completamente immerso nei suoi ricordi. Poi riprese e la sua espressione si fece più dura.
«Il nostro paese si trovava esattamente sul confine tra il regno del nord e quello del sud. Nessuno sapeva con esattezza a quale dei due reami appartenesse e agli abitanti la cosa non importava, era così da sempre. Eravamo troppo distanti dai due centri di potere, perché qualcuno si occupasse veramente di noi. Era la nostra fortuna, ma fu anche la nostra sfortuna più grande, perché a qualcuno di colpo interessò. I re dei due regni all’improvviso iniziarono a rivendicare per sé stessi il possesso del villaggio. A loro non importava davvero quel piccolo pezzo di terra, solo non volevano lasciarlo al rispettivo rivale. Così un giorno si presentarono al paese schierati ognuno con un modesto esercito. Iniziarono a discutere animatamente sul campo di battaglia tra i due contingenti. A un certo punto la situazione sembrò collassare e bastò un nonnulla perché a uno dei militari partisse una freccia infuocata. Finì sul tetto di paglia di un’abitazione. In due secondi la casa era in fiamme e poco dopo tutto il paese stava bruciando. Le persone scappavano gridando. Mio padre, cercò di metterci in salvo, prese a correre con me in braccio e mia sorella per mano, mentre mia madre ci seguiva con una borsa piena dei pochi averi che era riuscita a salvare. Ricordo il fumo; il caldo; le urla. A un certo punto sbucò da un angolo un carro trainato da due cavalli imbizzarriti. Mia madre non fece in tempo a spostarsi. Fu presa in pieno. Mio padre mi mise subito a terra e corse da lei. Morì tra le sue braccia. Non avevo mai visto mio padre gridare a quel modo. Non fosse stato per mia sorella, che tra le lacrime l’aveva costretto ad alzarsi, saremmo morti anche noi lì, su quella strada, avvolti dalle fiamme.
Nei giorni seguenti vagammo senza meta. Ci fermammo a chiedere aiuto in ogni casa che incontravamo lungo il cammino. Ci scacciarono tutti. Credo che mio padre, se avesse potuto, si sarebbe semplicemente lasciato morire sul ciglio della strada, ma aveva noi a cui pensare, per cui andò avanti.
A un certo punto trovammo una casetta abbandonata in cima a una collina, vicino a delle rovine in pietra, sul limitare di un bosco. Era mezza diroccata. Parte del tetto era divelto e mancava la porta d’ingresso, ma c’era un pozzo ancora funzionante e l’acqua era fresca e pulita. Ci fermammo lì.
Io e mia sorella macinammo per lungo tempo chilometri su chilometri a piedi ogni giorno, alla ricerca di qualcosa di commestibile da rubare dai campi e dagli orti più vicini, finché non riuscimmo anche noi a far crescere qualcosa sul prato antistante la nostra abitazione. Intanto mio padre era riuscito a rendere la casa abitabile. Sopravvivemmo, ma non tornammo quelli che eravamo un tempo, non lo saremmo stati mai più.
Nell’animo di mio padre si era radicato un odio furente, che lo consumava dall’interno.
Un giorno mentre sistemava il pavimento di legno trovò una botola. Era stata ben nascosta, ma le vecchie assi si erano espanse per l’umidità e avevano finito col sollevarsi mostrando un’apertura. Al suo interno rinvenne un libro dalla copertina nera, con un’incisione dorata, raffigurante un sole che si intersecava con la luna. Fu l’inizio e la fine di tutto. Il libro era un manoscritto di magia oscura. Mio padre aveva trovato la sua personale lampada magica, capace di esaudire i suoi desideri, primo fra tutti, la vendetta.
Studiò arti magiche per tutto l’anno successivo. Istruendo con le basi anche me e mia sorella. Pian piano la magia lo consumò, sia nell’anima che nell’aspetto. A nemmeno quarant’anni sembrava già un vecchio, ma non gli importava. Non aveva quasi più occhi nemmeno per noi, l’unica cosa che gli interessava era distruggere le due casate regnanti. Diceva di voler unire i due regni, così che a nessuno potesse capitare quello che era successo a noi. Desiderava un mondo pacifico e senza guerre, ma allo stesso tempo bramava punire tutti, per come eravamo stati trattati quando avevamo avuto bisogno di aiuto. Credo che alla fine non sapesse più nemmeno lui cosa volesse davvero. L’odio aveva ghermito a tal punto il suo cuore, che quando ha avuto la possibilità di realizzare i suoi ideali di un regno di pace e felicità, non è riuscito nel suo intento, mandando tutti i buoni propositi in fumo; portando l’intero regno nello stesso baratro da cui non era più riuscito a uscire lui stesso, come una piaga che ricopriva ogni cosa».
Non ci potevo credere.
«Vostro padre era il mago», dissi sbalordita.
«Il suo nome era Aletmir».
«Tua sorella sta continuando quello che ha iniziato lui. La distruzione della mia famiglia e quella di Deam», dissi portandomi una mano alla bocca.
«Si. Eica idolatrava nostro padre e il suo desiderio di vendetta è altrettanto grande», disse.
«Quello che vi è capitato è terribile, ma io e Deam non abbiamo colpe, non c’entriamo niente con quello che vi è successo».
«È vero. Le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli. Ecco perché ti sto raccontando tutto questo. Ecco perché ti ho lasciato la porta aperta perché fuggissi il giorno del tuo compleanno. Non potevo far niente per aiutare il principe, ma tu potevi ancora salvarti. Non avevo idea che la mia scelta avrebbe segnato il destino di mio padre». Rimase per un momento pensieroso, poi continuò. «Ho cercato di far desistere mia sorella dal consegnarti l’anello, ma non ha voluto sentire ragioni».
A questo punto volevo capire ogni cosa.
«Perché voleva riprendere la vera? Perché mandare Deam?».
Lui mi guardò meditabondo.
«Me lo sono chiesto anch’io. Nascondendosi tra le ombre aveva notato che il principe era prossimo a svegliarsi. Così appena ci fu l’occasione, mi chiamò perché me lo caricassi in spalla e la seguissi fino alla locanda, dove tu ti eri fermata e...».
«Come avete fatto ad arrivare fin là in così poco tempo?», domandai interrompendolo.
Mi guardò come se non comprendesse cosa gli stavo chiedendo, poi parve capire.
«I maghi conoscono altri modi per viaggiare. Noi non ci spostiamo a cavallo. Lo spazio e le distanze per noi non sono un problema».
Non ero sicura di questo cosa volesse dire, ma lo presi per buono e non insistei per avere maggiori informazioni a riguardo.
«E Deam? Perché usare lui?», chiesi.
«Se lo avesse chiesto a me sapeva che non l’avrei mai assecondata. Il principe è forte, atletico. Pensava ti avrebbe sopraffatta con poco e che nel caso tu lo avessi riconosciuto, non ti saresti opposta. Di sicuro non si aspettava che tu lo mettessi KO e che lo facessi prigioniero, legandolo come un salame. Dovevi vedere che faccia ha fatto Eica quando l’hai atterrato». Scoppiò a ridere. Io non ci vedevo niente di divertente.
«C’era il problema di spiegare al principe cosa ci facesse in quel luogo, ma la fortuna aiuta gli audaci e così è stato. L’ultimo suo ricordo era di aver ricevuto una botta in testa uscendo da una locanda. A Eica è bastato raccontargli che lo aveva trovato svenuto sul ciglio della strada», concluse.
«Non capisco perché tutta questa fatica per riprendere l’anello. Io non sono una maga, non sarei mai riuscita a utilizzarlo». Avevo l’impressione che fosse un dettaglio importante, ma non riuscivo a coglierne il significato.
«Non ne ho idea», rispose con un’alzata di spalle, «la mia magia non è forte come quella di mia sorella, non comprendo tutto quello che riesce a fare. Immagino che avesse le sue ragioni. Probabilmente originariamente pensava di poterne tornare in possesso, prendendolo nella sala degli arazzi, subito dopo che tu fossi svenuta, ma le cose poi non sono andate secondo i suoi piani». Si interruppe un momento, poi riprese a parlare. «Chissà, forse si tratta solo di una questione sentimentale. Era la fede nuziale di nostra madre. Gliela diede in punto di morte. Non possedeva altro da lasciarle come ricordo. L’aveva fatta mio padre per lei».
Questa notizia mi lasciò senza fiato.
«Tu sai dov’è? Dove ha portato Deam?», chiesi sporgendomi verso di lui.
«Certo. Può essere in un solo posto, ma se vuoi chiederle di fermare il processo e riportare i ricordi dentro al principe per salvarlo, sprecherai il fiato. Non ti aiuterà mai», sentenziò.
«Puoi portarmici?».
Lui distolse lo sguardo.
«Se vai lì è probabile che mia sorella, presa dalla rabbia uccida anche te. Per il momento i suoi piani erano di far morire il principe e punirti, facendoti precipitare nello stesso dolore che tu hai inflitto a lei, uccidendo nostro padre».
«Vostro padre si è ucciso con le sue stesse mani», dissi.
«È vero, ma mia sorella non la vede allo stesso modo e non fraintendermi, non ha intenzione di lasciarti in vita a lungo. Ti ucciderà prima o poi. Pero se adesso te ne vai, se ti nascondi, forse hai una speranza di sfuggirle».
«Se Eica ci voleva semplicemente morti, perché ricorrere a tutto questo. Perché usare la magia?»
«Eica vi vuole morti, ma non è un’assassina. La magia regala il lusso di ottenere quello che si vuole, senza sporcarsi le mani».
Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo.
«Puoi portarmi da lei?», ripetei la domanda.
«Sì, ma sappi che una volta lì io non ti aiuterò. Non mi metterò contro mia sorella. Te la dovrai cavare da sola».
«Portamici, ti prego».
Dopo un momento di esitazione disse:
«D’accordo».
Si alzò in piedi e aggiunse:
«Solo una cosa. Un mago veicola la sua magia attraverso un oggetto di legno con cui si lega. Come avrai capito per mio padre era il suo bastone. Per me e mia sorella è qualcosa di più piccolo». Sfilò dal colletto della camicia una catenina con attaccato un bastoncino di legno a mo’ di pendente identico a quello della sorella. «Distruggi l’oggetto e distruggerai anche il mago».
«Perché me lo stai dicendo?».
«In un modo o nell’altro. Voglio solo che tutto finisca», disse incupendosi in volto.
«Forse non sarà necessario arrivare a tanto, forse riuscirò a far ragionare Eica».
Se l’avessi uccisa sarei riuscita a salvare me stessa, ma non avrei salvato Deam. Lei era la mia unica speranza.
Lui fece uno sbuffo dal naso, sorridendo tristemente.
Mi porse il braccio.
«Attaccati», disse.
Non capivo, ma obbedii. Di colpo tutto intono a noi parve ondeggiare, come se ogni cosa fosse composta solo da uno strato di fumo o acqua corrente e i colori divennero soffusi, coperti da un mantello di oscurità. Mi aggrappai al suo braccio anche con l’altra mano.
«Non mollare la presa e cammina normalmente», suggerì.
Iniziammo a muoverci e ogni cosa prese a oscillare più velocemente. Tutto mutava e si intersecava a una velocità incredibile, eppure riuscivo a cogliere ogni dettaglio. Ogni strada, ogni albero, ogni casa. Avevamo fatto solo pochi passi, quando Alect disse:
«Siamo arrivati». Tutto intorno a noi si fermò. «Adesso puoi lasciarmi».
Ritirai le braccia, lasciandole cadere lungo i fianchi, stupefatta. Eravamo in una radura vicino a una collina, dietro la quale, iniziava una lussureggiante foresta che si apriva abbracciando la vallata. Il morbido tappeto di erba era punteggiato qua e là da dei pagliai a forma di cono. Sulla cima dell’altura c’era una piccola casetta in legno scuro. Non ebbi dubbi su dove ci trovassimo.
«È casa vostra», dissi. Non era una domanda, ma Alect rispose:
«Sì».
Mi incamminai, ma lui mi afferrò per un braccio trattenendomi.
«La magia di mia sorella non è potente come quella di mio padre. Eica non può stregare le persone o utilizzare gli elementi. Riesce solo a incantare gli oggetti. Non si aspetterà il tuo arrivo, ma di sicuro avrà pensato a delle protezioni», disse guardandomi negli occhi. «Non che mi importi di te, ma se vuoi, puoi ancora fuggire, fai ancora in tempo ad andartene. Non lo puoi salvare. Stai andando lì solo per vederlo morire e per fare la sua stessa fine».
Mi voltai verso la casa e liberai il braccio dalla sua presa.
«Andiamo», dissi.
Mi avviai verso la collina ed Alect mi seguì senza aggiungere altro.


Con passo deciso, arrivammo in cima alla collina. Vidi subito Deam. Era sdraiato su quello che restava di una vecchia costruzione in grosse pietre mezza interrata. Il braccio sinistro sotto la testa, l’altro disteso accanto al corpo con il polso rivolto verso l’alto. La gamba sinistra era piegata, mentre l’altra ricadeva, dal ginocchio in giù, a penzoloni, da quello che un tempo doveva essere il muro posteriore di un’abitazione. Teneva gli occhi chiusi, mentre il vento gli scompigliava i capelli, lasciandosi accarezzare il viso dall’ormai debole sole.
Anche in una situazione del genere, vedendolo, non potei impedire al mio cuore di fare un balzo e alla mia mente di pensare a quanto fosse bello.
Mi avvicinai a lui, che dovette avvertire la mia presenza dal rumore dei passi.
«Vattene Eica, non serve che vieni a controllarmi in continuazione. Ti ho già detto che non fuggirò. Avete già posto le vostre condizioni, non metterò a rischio la vita di mia madre, ne quella di lei. Per cui lasciami in pace», disse.
«Deam», lo chiamai.
Appena pronunciai il suo nome, lui aprì di scatto gli occhi e si mise seduto girandosi verso di me. Quando i nostri occhi si incontrarono, il suo volto già pallido, sbiancò ulteriormente. Si alzò subito in piedi, e mi afferrò con forza le braccia.
«Cosa diavolo ci fai qui?», gridò.
Non capii se fosse più arrabbiato o più spaventato.
«Te ne devi andare. Subito!», disse agitato.
Tenendomi per un braccio iniziò a camminare trascinandomi dietro di sé.
«Deam, aspetta, fermati, fermati!», dissi cercando di fare resistenza.
Lui si girò a guardarmi con occhi di fuoco.
«Tu non capisci, non puoi restare qui. Lei potrebbe tornare a momenti», urlò. Facendomi percepire quanto fosse impaurito.
«No, sei tu che non capisci», dissi, cercando di controllare il volume della voce.
All’improvviso si accorse che non eravamo soli. Mi tirò immediatamente dietro la sua schiena. Frapponendosi tra me e Alect. Da come lo guardò, era chiaro non fosse lui la persona che si era aspettato di vedere.
«Tu lavori al castello. Cosa fai qui. Cosa... cosa sta succedendo?», chiese confuso.
«La signorina ha deciso di venirti a salvare. Io l’ho solo accompagnata», rispose Alect quasi annoiato.
Deam mi guardò.
«Salvarmi?», i suoi occhi erano pieni di dolore. «Non so quello che credi di sapere, ma non puoi aiutarmi in nessun modo». Avvicinò una mano alla mia guancia, ma la lasciò ricadere senza avermi sfiorata. «Tra qualche giorno non ci sarò più». Si allontanò da me, dandomi la schiena. «Ti prego va via».
«Qualche giorno? Mi sa che si parla più di minuti», sussurrò Alect rivolto a me, alzando le sopracciglia. Sentii il desiderio di tirargli un pugno.
Avevo il cuore in tumulto dentro al petto. Deam era convinto che da li a pochi giorni, sarebbero scoccati i diciassette anni da quando aveva donato parte del suo cuore a una sconosciuta, per permetterle di vivere. Non sapeva che quel momento lo avevamo già vissuto e affrontato insieme. Afferrai Deam per un braccio e lo costrinsi a fermarsi.
«Deam, devi starmi a sentire. Non è come credi», dissi.
In quel momento vicino alla casa apparve una figura. Deam indietreggiò parandomisi davanti. Lo vidi chiudere le mani a pugno, irrigidendosi. Eica ci osservava con sguardo indecifrabile.
«Ma bene Alect. Si può sapere cosa stai combinando?», chiese.
Alect alzò le mani in segno di resa e si allontanò da noi, facendosi da parte. Eica strinse gli occhi riducendoli a due fessure. Poi si mise a passeggiare lentamente verso le rovine in pietra.
«Due notti fa, quando ho gentilmente invitato il nostro principe, a passare in questo incantevole luogo un breve soggiorno. Gentilmente quanto può esserlo un pugnale incantato puntato alla tua gola cara principessa...». Deam che ancora non sapeva chi fossi in verità, quando sentì Eica chiamarmi a quel modo, mi guardò velocemente con la coda dell’occhio. «...Mi ero premunita di lasciare un ricordino alla buona savia, per tutto l’aiuto che vi aveva dato. Così oggi sono passata per vedere se l’avesse gradito. Beh non era in casa, ma mi aveva lasciato un bigliettino di ringraziamento nel caso fossi tornata». Alzò un braccio, aveva una brutta scottatura che lo percorreva dal polso al gomito. «Capirete dunque che non sono esattamente di buon umore, ma... credo che ora le cose possano migliorare». Estrasse qualcosa dalla tasca dell’abito, lo prese tra il pollice e l’indice e lo alzò perché potessimo vederlo. Inclinò la testa nella sua direzione e fece uno smagliante sorriso. L’anello era diventato di un bianco slavato.
«A occhio e croce direi che per diventare del suo colore originale, mancano si è no una decina di minuti. Qualcuno vuole scommettere?», disse, facendo una risatina.
Mi mancò il respiro. Mi feci avanti, superando Deam di qualche passo.
«Eica, ti supplico. Lui non c’entra niente con quello che vi è successo», gridai.
Lei fulminò con gli occhi il fratello.
«Ti prego, ti darò qualsiasi cosa», dissi.
«Mi stai offrendo la tua vita in cambio della sua? Tranquilla principessa mi prenderò anche quella appena avrò finito con lui e visto il colore della fede, non credo dovrai aspettare a lungo, ma se proprio ci tieni a fare qualcosa per me, allora fai tornare indietro il tempo ed evita di uccidere mio padre. Dovevi morire tu non lui», urlò, con i tratti del viso contorti dall’ira.
Il sole stava scendendo alle sue spalle, allungando le ombre. In quel momento tramontarono anche le mie speranze di convincere Eica a ridare a Deam i suoi ricordi.
Cercai di tenere a bada l’angoscia che si stava impossessando di ogni centimetro del mio corpo, paralizzandomi. Ci doveva essere un motivo se Eica si era impegnata così tanto per non lasciare la vera in mio possesso. Iniziai a correre nella sua direzione, decisa a strappargliela dalle mani. Non mi sarei data per vinta, avrei tentato qualsiasi strada.
A un certo punto della mia corsa, quello che stavo per calpestare, credendolo un pagliaio caduto a terra, si sollevò davanti a me, sbarrandomi la strada. Era una specie di fantoccio. La paglia era stata legata in più punti con della corda, per creare delle suddivisioni che ricordassero la forma umana. Vidi uno scintillio in alto alla mia sinistra e troppo tardi mi accorsi che il pupazzo brandiva una spada. Non avrei fatto in tempo a scansarmi. Chiusi gli occhi e alzai le braccia sopra la testa per cercare di proteggermi.
Mi sentii afferrare e buttare a terra. Aprii gli occhi. Deam era sopra di me. Un secondo dopo si stava già rialzando, pronto a sferrare un velocissimo calcio al fantoccio, che cadde a terra a diversi metri di distanza da noi, perdendo la spada.
«Aili tutto bene?», mi chiese Deam con occhi preoccupati.
Risposi di si e lui mi allungò una mano per aiutarmi a mettermi in piedi. Mentre mi sollevavo mi accorsi che non ero la sola a farlo. Intorno a noi molti altri pupazzi si stavano alzando dal terreno e tutti brandivano un’arma affilata. Sulle loro teste, la paglia si aprì nei punti in cui, su un viso umano, ci sarebbero stati occhi e bocca, imitando delle mostruose cavità vuote e profonde.
Deam si chinò per raccogliere la spada caduta al fantoccio. Poi, riprendendomi per mano, mi attirò il più possibile vicino a sé. I suoi occhi guizzavano da una parte all’altra e la fronte era imperlata di gocce di sudore. Io potevo sentire i battiti del mio cuore, che mi pulsavano nelle orecchie, tanto ero terrorizzata.
Eica rideva di gusto mentre i suoi mostri si avvicinavano a noi. Deam alzò la spada e calò un fendente su uno dei fantocci. Questo parò il colpo e tirò una stoccata che Deam schivò per un soffio. Velocemente Deam fece ruotare la spada e riuscì a decapitare il pupazzo, che si afflosciò ai suoi piedi.
Subito un altro mostro gli fu addosso. Dopo aver bloccato il suo attacco, Deam si girò nella mia direzione.
«Abbassati», gridò.
Io reagii prontamente e lui trafisse con un affondo un fantoccio alle mie spalle.
Afferrai la spada che aveva lasciato cadere quest’ultimo. Provai ad alzarla, ma era pesantissima, non sarei mai riuscita a brandirla.
Deam era impegnato a fermare altri tre mostri. Un quarto mi si parò davanti, alzando la sua arma su di me. Sollevai la spada per bloccare il colpo. Quando queste impattarono, la mia mi scivolò dalle mani. Ero riuscita a deviare la sua imbroccata, ma il fantoccio stava già per caricare nuovamente. Sentii Deam che mi spingeva di lato e velocemente placcò il suo attacco. Nello stesso momento però un altro fantoccio eseguì una stoccata. Deam non ebbe modo di spostarsi e la spada del mostro gli corse sul braccio, lasciando un taglio netto.
Deam fece una smorfia di dolore, ma continuo a parare e fendere colpi. Erano troppi, non sarebbe riuscito a reggere così ancora a lungo.
All’improvviso mi sentii afferrare e sollevare in aria. Deam gridò il mio nome. Un fantoccio mi teneva per le braccia e con un balzo incredibile si era portato fuori dal combattimento. Atterrando accanto a Eica.
«Tic, toc. Troppo tardi», disse lei con un sorriso sornione.
Mi alzò l’anello davanti agli occhi. Il poco colore che ancora restava al suo interno, sparì in quel momento, tornando della sua tinta originale. Spalancai gli occhi. Il respiro mi si fermò nei polmoni. Mi girai verso Deam e lo vidi cadere. La spada gli scivolò dalla mano senza presa. Le gambe cedettero e lui si accasciò a terra, restando immobile.
Iniziai a urlare. Non sapevo di poter emettere simili suoni così pieni di strazio e disperazione.
Avevo fallito, non ero riuscita a salvarlo. Sentii il mio cuore andare in mille pezzi e lo desiderai. Meglio morire che sopportare un simile dolore. Le forze mi abbandonarono e non fosse stato per il pupazzo che mi teneva per le braccia, mi sarei piegata in due sul terreno. Persi il controllo della mente, che chiedeva solo l’oblio, per non dover affrontare la situazione.
Eica mi tirò un paio di ceffoni, che quasi non sentii.
«Resta qui bambina, non provare a svenire», disse.
La vedevo appena. La vista completamente offuscata dalle lacrime.
«Visto tutto il tuo impegno per salvargli la vita, ti farò un regalo».
Mi prese la mano sinistra e sull’anulare mi infilò la fede.
«Ecco fatto ora come sognavi sei una sposina», disse ridendo. «Avevo pensato di lasciarti in vita per un po’ dopo la morte del principe, ma siccome so anche essere generosa, credo che ti ucciderò adesso. Contenta? Rivedrai presto il tuo amore».
Non mi importava niente di quello che diceva. Deam era morto, nulla aveva più senso. Che mi uccidesse pure anche subito.
La vidi alzare un dito e due fantocci atterrarono con un salto accanto a lei. Io continuavo a singhiozzare.
«Finiamola qui. Uccidila!». Ordinò a uno dei pupazzi, che subito alzò la spada.
Io chiusi gli occhi. Mi concentrai su Deam.
Il colpo non arrivo. Sentii un po’ di trambusto e riaprii gli occhi. Alect aveva decapitato il fantoccio.
«Alect, cosa stai facendo?», gridò Eica, furiosa.
Lui la afferrò per la lunga treccia, tirandole indietro la testa.
«La finisco qui», disse.
Con la mano libera prese il pendente di legno di Eica e strinse la presa, spezzandolo in due.
Lei gridò e iniziò a indietreggiare. Incredula.
«Cosa hai fatto! Cosa hai fatto!», sussurrò.
La sua pelle iniziò a disfarsi e decomporsi, così come avevo già visto succedere a suo padre. Stramazzò sul terreno.
Alect si girò verso di me e mi liberò dalla presa del pupazzo. Anche nello stato di prostrazione in cui mi trovavo, riuscii a vedere che aveva un’espressione tesa e sofferente, ma ero incapace di comprendere davvero quello che stava succedendo. La mia mente si rifiutava di funzionare correttamente.
D’improvviso ebbe un sussulto e un rivolo di sangue gli corse giù da un angolo della bocca. Abbassai gli occhi e vidi che una spada lo aveva trapassato al ventre e per poco non aveva trafitto anche me. Quando venne ritirata, lui cadde in ginocchio ai miei piedi. Dietro a lui un fantoccio brandiva l’arma insanguinata. Spostai lo sguardo su Eica. Era sdraiata a terra, appoggiata sugli avambracci, per tenere il corpo leggermente sollevato. In quel momento si lasciò andare, allungò le braccia, appoggio la testa al suolo e si tramutò in cenere. Nello stesso istante, tutti i pupazzi ancora in piedi, si afflosciarono, tornando ad essere della semplice paglia inanimata.
Alect si era steso supino con le mani sulla ferita. Mi accasciai accanto a lui. Incapace di reggermi ancora in piedi e lo guardai sperduta.
«Alla fine non sono riuscito a tenermi in disparte», disse, «si vede che era destino». Mi guardò negli occhi. «Sarai una buona regina. Ne sono sicuro. Non permettere che a qualcun altro capiti quello che è successo a noi».
Le forze lo stavano abbandonando, ma riuscì a portarsi una mano al collo e a prendere il suo pendente di legno. Con gli occhi fissi nei miei, strinse il pugno e lo ruppe.
Io aprii la bocca, ma non ne uscì nemmeno un suono. Poco dopo, anche lui diventò solo un mucchio di cenere sparsa dal vento.
Dietro di me sentii una vampata di calore. Mi girai. La casa aveva a preso ad ardere, come se anche lei avesse voluto seguire il destino dei suoi proprietari, diventando null’altro che polvere.
Cercai di alzarmi e lentamente ci riuscii. Iniziai a camminare, ma ogni passo mi costava una fatica immensa e più mi avvicinavo alla mia destinazione, più i miei piedi sembravano di piombo. Tenevo gli occhi fissi a terra. Non riuscivo a sollevare lo sguardo. Non volevo vedere. Non potevo, non l’avrei sopportato. Mi costrinsi a farlo.
Deam era steso con il viso rivolto verso l’alto. Gli occhi chiusi, la bocca leggermente aperta. Le braccia, appena divaricate verso l’esterno, abbandonate lungo il corpo. La gamba sinistra piegata, con la caviglia sotto il ginocchio dell’altra. Crollai con un gemito di dolore al suolo. Le lacrime mi annebbiarono completamente la vista. Strinsi gli occhi, poi alzai lo sguardo verso il cielo, ovunque, in cerca di un appiglio, in cerca di aiuto. Respiravo affannosamente. Feci due respiri profondi e pian piano strisciai carponi, fino ad arrivare accanto a lui.
Lo guardai in volto. Due ciocche di capelli gli ricadevano scomposte sulle palpebre. Con mano tremante gliele spostai e la lasciai poi scorrere sulla sua pelle, accarezzandolo, seguendo la linea del suo viso. Fui scossa dai singhiozzi e mi piegai sul suo petto, gridando di dolore.
Tra i singhiozzi a un certo punto sentii qualcosa. Aprii gli occhi di scatto e smisi di respirare. Appoggiai un orecchio al suo torace. Era lievissimo, quasi impercettibile, ma c’era. Un piccolo palpito all’interno del suo corpo. Un cuore che ancora batteva.
Sollevai la schiena e mi guardai la mano sinistra. Avevo ancora l’anello infilato all’anulare. Il suo colore era quello del legno, ma a intervalli regolari compariva una piccola striatura colorata, che si ingrandiva e si ritirava, pulsando come i battiti di un cuore.
Deam stava ancora combattendo. Lottando per non perdere. Per non perdere me.
Barcollando riuscii a mettermi in piedi. Mi avvicinai alla casa che ardeva e mi sfilai la fede dal dito. Mi fermai un secondo a osservarla, rigirandola tra i polpastrelli, ma avevo già deciso. Sollevai il braccio sopra la testa e la lanciai tra le fiamme.
Tornai da Deam e mi lasciai andare accanto a lui, con le mani nell’erba e le unghie conficcate nella terra. Trattenendo il respiro. In attesa. Pregando di aver fatto la cosa giusta. Di non aver appena commesso il più terribile errore della mia vita.
Improvvisamente sulla pelle di Deam iniziarono a disegnarsi spire di fuoco, che si annodavano e turbinavano tra loro. Era come se il suo corpo le stesse assorbendo dall’etere. Riuscivo a vederle anche attraverso i suoi vestiti tanto erano luminose. Si muovevano, danzando, verso un punto preciso: il centro del suo cuore. Quando lo raggiunsero sparirono e io avvertii il cambiamento.
La volta precedente né io né lui ci eravamo accorti di quello che era successo. Poteva essere capitato in qualsiasi momento, ma questa volta lo sentii chiaramente. Il mio cuore saltò un battito e un momento dopo prendeva a palpitare con un ritmo nuovo, diverso, più forte, che non era solo mio, era nostro. Il legame si era ricreato.
Deam fece un profondo respiro, aprendo gli occhi. Iniziò a tossire e si mise lentamente seduto. Quando l’accesso di tosse si calmò, si guardò intorno con espressione confusa, passandosi una mano tra i capelli. Osservò l’abitazione in fiamme e i pagliai a terra ormai inoffensivi. Si voltò a guardarmi.
«Aili, co...», iniziò a dire qualcosa, ma poi, fu come se i suoi occhi riuscissero finalmente a vedermi davvero e si bloccò. Sul suo viso si dipinse un’espressione di stupore.
«Oh!», riuscì semplicemente a commentare, sollevando le sopracciglia.
Fu un comportamento così da lui, che mi scaldò immediatamente il cuore, sciogliendo tutta la tensione accumulata e lasciando posto solo al sollievo. Iniziai a ridere e piangere allo stesso tempo, finendo poi per mettermi a singhiozzare rumorosamente. Deam mi prese tra le braccia, stringendomi forte a lui. Cullandomi dolcemente sul suo petto, con il viso posato sulla mia testa. Baciandomi i capelli.
«Aili, amore. Grazie, grazie, grazie... Perdonami».
Ripeté quelle due ultime parole un’infinità di volte, mentre io cercavo, senza successo, di calmarmi. Così alla fine mi lasciai semplicemente andare. Piansi di sollievo perché Deam era ancora vivo, perché eravamo ancora insieme, per i suoi ricordi ritrovati. Piansi di tristezza per Alect, per Eica e la loro famiglia.
Non so quanto rimanemmo in quella posizione. Il tempo di nuovo non era più così importante. Quando ci staccammo e ci alzammo da terra, il cielo era ormai un firmamento di stelle, oscurate solo dalla luminosità del fuoco che ancora consumava la casa.
Ci prendemmo per mano e iniziammo a scendere dalla collina.


Non avevamo idea della direzione da prendere per tornare al castello, per cui ne scegliemmo una a caso, finché non scoprimmo, che stavamo andando esattamente nella direzione opposta.
Impiegammo tre giorni per tornare a palazzo.
La prima notte non dormimmo affatto, la passammo a camminare. Anche se era già da due giorni che non chiudevo occhio, non sarei mai riuscita ad addormentarmi, troppo sovreccitata. Parlammo per tutto il tempo. Riempii le lacune di Deam su quanto era accaduto negli ultimi giorni e gli narrai la storia del mago e della sua famiglia. Come mi aspettavo, ne rimase profondamente scosso.
Lo sommersi di domande, per accertarmi che non ci fossero falle nei suoi ricordi. Ricordava tutto. Forse anche troppo. Quando con il suo sorrisetto furbo, scese nei particolari del nostro primo bacio, parlando del sapore che avevano le mie labbra, non potei fare a meno di assumere una tonalità scarlatta.
Ci chiedemmo, se fosse stato possibile, distruggendo l’anello, sovvertire l’incantesimo fin da subito. Non trovammo una risposta. Probabilmente non lo avremmo mai saputo.
Da quello che mi aveva detto la savia, i ricordi che man mano la vera perdeva, sarebbero dovuti svanire per sempre. Ma Deam era riuscito a recuperare, non solo quell’unico frammento a cui la sua anima era rimasta aggrappata, ma tutti, anche quelli che sarebbero dovuti essere irrecuperabili. Non glielo dissi, ma pensai che a renderlo possibile, fosse stata l’intensità del suo amore per me. Un amore dove, già una volta, due cuori si erano aggrappati l’uno all’altro con talmente tanta forza, da diventare una cosa sola.
Il giorno seguente trovammo un passaggio sul carretto di un contadino che trasportava fieno. Divise delle mele con noi e io riuscii ad assopirmi un po’ sul morbido tappeto, cullata dal traballante incedere del carro, con la mano di Deam intrecciata alla mia. Non ci eravamo ancora lasciati da quando eravamo scesi dalla collina.
La seconda notte dormimmo in una stalla. Puzzava, ma almeno la presenza degli animali, con i loro grossi corpi, regalava un piacevole tepore all’ambiente. Quando fece giorno riprendemmo il cammino. Nel primo pomeriggio riuscimmo a strappare un altro passaggio. Ci caricò un piccolo commerciante di vini, che trasportava una trentina di damigiane verso la città del sud. Gliele avevano commissionate dal palazzo, disse compiaciuto, per le nozze e l’incoronazione dei nuovi reali, che come sicuramente sapevamo, sarebbero avvenute da li a due giorni. Io e Deam ci guardammo, ci eravamo completamente dimenticati che quel giorno fosse così vicino.
All’imbrunire la strada che stavamo percorrendo si intersecò con una che già conoscevo. Quando vidi l’albero sotto il quale ero svenuta, esausta, dopo una notte passata a cercare Deam lungo il fiume, lui chiese al commerciante di fermarsi, perché potessimo scendere. Dopo averlo salutato, ci dirigemmo a piedi verso la roccaforte delle milizie, nella quale Deam aveva passato le notti seguenti alla nostra brutta esperienza nel bosco. Nella rocca trovammo due guardie che, riconoscendo Deam, ci fecero subito entrare. Passammo lì l’ultima notte. Il giorno seguente avuti dei destrieri in prestito dai cavalieri, cavalcammo fino al tramonto per raggiungere il castello.
Al nostro arrivo dovevamo avere un aspetto spaventoso. O almeno, io di sicuro lo avevo. La mia balia anche se aveva le lacrime agli occhi per il sollievo di vederci sani e salvi, evitò di abbracciarmi, limitandosi a darmi qualche buffetto in testa. La regina invece non si fece di questi problemi. Quando vide Deam lo stinse forte a sé piena di gioia. Anche se è vero che, a differenza mia, lui pareva solo un po’ trasandato.
Per la prima volta dopo tre giorni io e Deam ci separammo. Ognuno diretto nella sua camera. Sentii la sua mancanza un secondo dopo averlo lasciato.


Dopo aver sbocconcellato qualcosa e fatto un lunghissimo bagno che mi fece sentire rinata, mi buttai sul letto. Indossavo una lunga camicia da notte bianca e una vestaglia color avorio con i risvolti ricamati. Ero davvero stanca, tanto che sarei potuta crollare immediatamente, ma mi feci forza e mi alzai. C’era ancora una cosa che dovevo fare. Mi infilai delle pantofole, presi una lanterna e uscii dalla mia stanza. Il castello era già avvolto dal torpore della notte e non c’era un solo suono, a parte i miei passi, che spezzasse il più assoluto silenzio.
Percorsi i lunghi corridoi, fino all’ala in cui si trovavano le camere della servitù. Trovai la stanza di Eica ed entrai. Era esattamente come l’avevo lasciata qualche giorno prima. Sull’angolo del letto c’erano ancora le pieghe sulle coperte, dove Alect si era seduto. Feci un profondo respiro, poi mi avvicinai allo scrittoio. Vi appoggiai sopra la lanterna ed aprii il cassetto in basso a destra. Presi in mano il suo contenuto. La prima volta che lo avevo visto, non potevo sapere di cosa si trattasse, ma la notte precedente, mentre cercavo di prendere sonno, ormai a conoscenza della storia della famiglia del mago, avevo iniziato a maturare l’idea che potesse trattarsi proprio di lui e avevo avuto ragione. Passai la mano sulla copertina del manoscritto. L’incisione dorata era quasi del tutto sparita, ma ancora leggermente visibile. Ebbi la tentazione di aprirlo e quasi lo feci, ma poi desistetti. Ripresi la lampada e me ne andai con il libro in mano. Scesi nell’androne, aprii il grande portone intagliato e uscii nel parco. C’era un leggero alito di vento e la luna crescente tagliava come una lama il buio manto del cielo.
Scendendo dalla gradinata, mi portai sul vialetto di ghiaia che percorreva tutto il giardino da ambedue i lati. Rimossi il coperchio di vetro della lanterna, lo appoggiai sul penultimo gradino della scalinata e sollevai il libro sopra la fiamma della candela, rimasta senza protezione. Le pagine iniziarono a scurirsi e ad arricciarsi, prendendo fuoco. Quando non potei più tenerlo in mano per il troppo calore, lo deposi a terra e lo osservai bruciare, finché non ne rimase più niente.
Alect lo aveva definito un libro di magia oscura. Ma la magia non è né buona né cattiva, la differenza sta solo in come viene usata.
Con il libro in cenere ai miei piedi però, mi sentii meglio. Nelle mani sbagliate avrebbe potuto provocare ancora più dolore, di quello che gli uomini riuscivano già a infliggersi l’un l’altro da soli, anche senza le arti magiche.
Sentii dei passi dietro di me.
«Mia signora, cosa ci fate fuori a quest’ora».
Iane e Rimet mi si stavano avvicinando, scendendo dalla gradinata.
«Stavo per rientrare. Voi siete di guardia?», domandai mentre risistemavo il cappuccio di vetro sopra il lume.
«No, ci hanno appena dato il cambio», rispose Rimet.
«Capisco. Allora vi auguro buonanotte», dissi loro con un sorriso.
Mi avviai su per la scalinata.
«Mia signora aspettate».
Mi fermai e mi voltai verso di loro. Si scambiarono uno sguardo, poi si inchinarono.
«Noi non conoscevamo niente di lei, prima del viaggio che abbiamo intrapreso insieme», disse Iane, «ma siamo stati molto felici di averlo fatto, ora sappiamo quale grande regina sarà per il nostro regno. Volevamo porgerle i nostri omaggi».
Le sue parole mi colsero impreparata, non sapevo se erano meritate, ma mi infusero grande fiducia. Li ringraziai un po’ imbarazzata. I due cavalieri si alzarono e aspettarono che io varcassi il portone, prima di girarsi e inoltrarsi nel parco.


Quando tornai in camera, vidi un rigonfiamento sotto le coperte del letto. Sorrisi. Appoggiai la lanterna sul comodino e con un soffio spensi la fiammella. Appena mi infilai sotto le lenzuola, un braccio si allungò e mi attirò a sé. Deam mi avvolse in un caldo abbraccio. La sua fronte appoggiata alla mia.
«Non ti sembra un po’ inappropriato intrufolarti nel mio letto, non siamo ancora sposati. Che dirà la servitù se ci scopre?», chiesi.
«mmh...», mugugnò, «non mi importa, mi mancavi», disse. «Dov’eri? Va tutto bene?», domandò.
«Adesso sì», risposi.
Restammo in silenzio per un momento, poi Deam disse:
«Domani c’è il nostro matrimonio».
«Sopravvivremo, abbiamo affrontato di peggio», commentai.
Deam mi tirò un pizzicotto sul braccio. Io ridacchiai. Lui si fece ancora più vicino.
«Da domattina sarai mia per sempre», sussurrò.
Anche se non mi poteva vedere, io arrossii.
«Lo sono già», risposi.
«Sai cos’è stata una cosa buona di questi ultimi giorni?», chiese.
«Perché ce n’è stata una?», domandai.
«Sì. Mi sono potuto innamorare di te un’altra volta. Dovessi perdere la memoria altre cento, mille volte, mi innamorerei sempre di te. Sceglierei sempre te».
Deam aveva la capacità di dire certe cose senza imbarazzo, con la più assoluta naturalezza. Mi chiesi se un giorno ci sarei riuscita anch’io.
«Cerca di non dimenticarti mai più di me», dissi.
«No, mai più, sei la mia vita».
Mi voltai verso il soffitto.
«Già, sei quasi morto per esserti scordato di me», dissi sentendomi stringere lo stomaco al solo ricordo.
Lui si alzò leggermente su un braccio. Nel buio cercò il mio viso con la mano, lo girò verso di sé e si chinò fino a sfiorare le mie labbra con le sue.
«Non intendevo questo, è che non potrei vivere senza di te. Ti amo così tanto», sussurrò a un millimetro dalla mia bocca.
Premette le sue labbra sulle mie e io intrecciai le mani tra i suoi capelli. Il cuore mi batteva forte ed ero sicura lo potesse avvertire anche lui.
Quella sera ci addormentammo avvinghiati l’uno all’altra. Il giorno seguente ci aspettava un nuovo inizio, ma non avevo alcun timore, perché ero sicura lo avremmo affrontato insieme.



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